Cicciomessere durante il processo

Diario di ricordi da Peschiera e dintorni
di Roberto Cicciomessere

SOMMARIO: Il racconto della vita nel carcere militare dell'obiettore di coscienza Roberto Cicciomessere. Segretario del partito radicale, è impegnato nella campagna per il riconoscimento del diritto a rifiutare le armi. Dopo pochi mesi dal suo arresto, grazie alla mobilitazione dell'opinione pubblica promossa dal Partito radicale, il Parlamento italiano approva, il 15 dicembre 1972, una legge che riconosce il diritto civile all'obiezione di coscienza al servizio militare.

L'11 marzo, dopo la manifestazione in piazza Lagrange a Torino, ci consegniamo ai carabinieri. Siamo tre: Valerio Minnella, Gianni Rosa, ed io. Alerino Peila è stato invece già arrestato, poco prima dell'inizio del corteo.

I carabinieri impiegano molte ore per trovare i nostri mandati di cattura. Verso sera ci prendono le impronte digitali, ci fanno le foto segnaletiche e ci portano, senza manette, alle "nuove" di Torino. Passiamo la notte nelle celle d'isolamento del sotterraneo. Sono celle singole, molto piccole, umidissime, con il cesso alla turca. Durante la notte passa periodicamente la guardia. Accende la luce e controlla, attraverso lo spioncino, l'interno della cella. E' difficile dormire.

12 marzo - Ci traducono, su due macchine, al carcere militare di Peschiera. Sono ammanettato con Alerino; in un'altra macchina, Valerio e Gianni. Gli autisti sono costretti a fare molti giri attraverso Peschiera, per riuscire ad imboccare l'entrata del carcere. Peschiera è infatti occupata militarmente da carabinieri

e polizia, le vie d'accesso al carcere sono bloccate da cavalletti; è in programma la manifestazione dei gruppi antimilitaristi. Ci tolgono i ferri, firmiamo il registro (riesco

a vedere il numero dei detenuti in "forza": 202) e veniamo subito accompagnati dal maresciallo Doni nelle celle d'isolamento. Sono

locali di circa 4 metri quadri, in buona parte occupati dal tavolaccio, con una finestrella che si affaccia sul corridoio, la luce di una lampadina sempre accesa, abbastanza freddi e umidi. Occupiamo quattro, delle cinque celle esistenti; nella prima è il letto di contenzione: il materasso ha un buco al centro per i bisogni fisiologici, grosse cinghie sono fissate al letto e servono per immobilizzare il detenuto nudo. Il morale è, nonostante tutto, alto. Entriamo in carcere preparati, senza rimpianti, per una precisa scelta politica. Valerio e Alerino, che sono alla seconda obiezione, fanno da ciceroni e spiegano a me e a Gianni, gridando dagli spioncini delle celle, il funzionamento del carcere, ci indicano i carcerieri "buoni" e quelli "cattivi", ci rassicurano sulla permanenza in quelle celle, non troppo comode: "al massimo stasera, dopo la doccia e la vestizione, ci porteranno in camerata". Sono impaziente di conoscere gli altri detenuti, di vivere - ormai - quanto ho letto nel diario di Pizzola.

Non sarà cosi'.

14 marzo - Sono passati, invece, due giorni di cella. Chiediamo di essere ricevuti dal comandante, per avere spiegazioni su questo trattamento particolare. Iniziamo anche a rifiutare il rancio. Nestorini ci chiama uno alla volta e ci spiega che, secondo il regolamento dobbiamo restare in isolamento fino a quando saremo interrogati dal procuratore militare. La regola non viene mai applicata, ma solo perché esistono poche celle : lui quindi non fa che applicare correttamente il regolamento. Alla domanda perché questo improvviso zelo risponde molto vagamente. A me in particolare fa subito capire che rifiutare il rancio è un reato punibile a norma di codice militare, reato che diventa ancora più grave se realizzato da più persone ed in seguito ad un preventivo accordo.

Ritornando in cella, accompagnato dal maresciallo Doni, mi rivolgo agli altri compagni che devono a loro volta, recarsi dal comandante Nestorini, dicendo "non mollate".

15 marzo - Dopo la doccia Doni, mentre fa accompagnare gli altri compagni alle camerate, mi comunica che devo restare ancora in cella. Non mi dà spiegazioni. Continuo a non mangiare, anche se la cosa diventa sempre più difficile per mancanza di latte. Avevo già fatto digiuno per il divorzio e per l'o.d.c., anche undici giorni ma mai in completo isolamento ed in una situazione che mi appare di giorno in giorno più difficile.

19 marzo - I dolori allo stomaco diventano insopportabili e termino il digiuno. In questa giornata il capitano Nestorini, il tenente Zanzottera, il sottotenente medico e cappellano, tutto lo staff dirigenziale insomma, mi comunicano, venendo personalmente nel corridoio delle celle, che per il "non mollate" sono stato punito con dieci giorni di CPR, di cella d'isolamento. La decisione mi viene presentata come atto magnanimo, perché nella frase potevano essere ravvisati gli estremi di reati molto più gravi, come istigazione di militari alla disobbedire punibile con ben altre pene. Ostentano di assicurarsi che la mia permanenza in cella sia "confortevole", concedendomi il materasso e le coperte anche di giorno, la possibilità di fumare e di leggere. Claudio Bedussi, Giacomo Secco, Valerio Minnella riescono perfino ad entrare nel corridoio delle celle ed a portarmi latte, libri, bigliettini con notizie varie. Il cappellano fa brevi apparizioni, mostrandosi molto gentile, regalandomi perfino sigarette. Non ha nessuna voglia di parlare con me anche se, nella mia condizione d'isolato, ne sento evidentemente molto bisogno. Questo trattamento particolare è forse l'effetto dei telegrammi di Loris Fortuna, di Lino Jannuzzi, di Ennio Bonea che mi arrivano in cella: Nestorini capisce che la vicenda è seguita dall'esterno, anche da forze organizzate, e non è quindi conveniente fare troppo i duri, rischiare di attirare l'attenzione sul carcere e sul trattamento riservato ai detenuti. Non può non pesare, anche, "La Prova Radicale" con il diario di Mario e l'annuncio che continueremo su questa strada. Per molto meno non aveva esitato, altre volte, a denunciare altri compagni detenuti.

21 marzo - Trascorro questi giorni di cella senza eccessive difficoltà, leggendo molto (Bedussi ha una fornitissima biblioteca e mi passa quotidianamente ottimi libri), abbastanza sereno. Comincio a conoscere le persone che vengono rinchiuse nel carcere, parlando attraverso lo spioncino con i nuovi arrivati che per qualche ora, prima dell'assegnazione della camerata, passano in queste celle. Renato Bianco, bersagliere mi chiede angosciato di parlare con lui: è qui dentro per essersi portato a casa, durante la licenza, una giacca militare affidata sperimentalmente al suo battaglione. Riesco a parlare con tre alpini che si sono allontanati dal posto di guardia, di notte, in mezzo alla neve, cinque minuti prima della scadenza del loro turno.

22 marzo - L'undicesimo giorno di isolamento, due giorni prima del previsto vengo trasferito in camerata. I compagni obiettori scherzando insinuano che debbo ringraziare mia madre che per molti giorni ha rotto i coglioni a Nestorini e l'ha costretto a graziarmi due giorni. In realtà è un gesto di "buona volontà" di Nestorini, per farmi capire che se non rompo le scatole ci si può intendere. E' un discorso che funziona con molti detenuti, e rischia di funzionare purtroppo - probabilmente per un eccesso di fiducia in sé- anche con un obiettore.

23 marzo - La camerata in cui vengo portato può contenere dalle quindici alle ventidue persone. Le sue uniche finestre che guardano sulla strada sono chiuse quasi interamente da un muretto. La luce è, quindi, sempre accesa. L'arredamento è costituito dalle brande militari e dagli armadietti metallici. In un piccolo vano c'è il solito cesso alla turca e un lavandino. La mattina bisogna fare la coda per potersi lavare. Non esistono termosifoni, il freddo e l'umidità sono notevoli anche d'estate, per la vicinanza del lago di Garda e del Mincio su cui si erige il carcere, una vecchia fortezza austriaca. In questo locale si trascorrono il maggior numero di ore, 18 su 24. Circa sei ore, tre la mattina e tre nel pomeriggio, costituiscono la razione di "aria" da "prendersi" in un cortile abbastanza ampio, chiuso da un muraglione su cui passeggiano le sentinelle ed è sistemata una garitta con il riflettore. Qui è possibile anche giocare a ping-pong, pallavolo e calcio (testimoni di Geova permettendo).

Il mio primo contatto con i compagni di camerata è, come previsto, abbastanza difficile. Come nella caserma, i detenuti scaricano l'aggressività repressa, l'oppressione continua, sui più deboli, creando regole e gerarchie fittizie che evidentemente hanno come unico effetto quello di dividere i detenuti, renderli deboli ed impreparati nei confronti dei superiori, aggiungere difficoltà alla già difficile vita di carcere. Cosi' anche nella mia camerata esiste il "capo-camerata", ci sono gli anziani che ritengono di avere dei poteri sui nuovi arrivati, vige l'abitudine degli scherzi stupidi come i "gavettoni", i "dentifrici" ed altre liturgie ancora più crudeli, riportate di sana pianta dall'ambiente di caserma che alcuni vorrebbero ricreare. Eliminare questo stato di cose, pregiudiziale alla presa di coscienza delle cause comuni della nostra condizione di detenuti, è l'impegno più difficile ma anche più importante del nostro gruppo di obiettori.

Appena entrato in camerata, "Veneziano", il "capo-camerata", mi fa sapere fra le risatine degli altri che vige l'abitudine di infilare una supposta ad ogni nuovo detenuto. Mi comunica che se non me la farò introdurre con le buone gli "anziani" saranno costretti ad usare le cattive. In modo fermo, ma non astioso, spiego il senso del mio rifiuto, la necessità che in camerata non si creino divisioni fra i detenuti ma la completa unità per meglio contrastare il prepotere e gli arbitri dei superiori, l'identità sostanziale delle ragioni che ci hanno portato tutti nel carcere militare. Dichiaro di non avere nessuna intenzione di reagire violentemente ad un loro eventuale atto di forza. Questa reazione, evidentemente, li sconcerta: inconsapevolmente speravano in una risposta violenta alla quale avrebbero potuto opporne una maggiore e "vincente". E' il senso stesso del "gioco" , a voler tralasciare altre, e più torbide e inconsce, implicazioni.

Hanno conosciuto solo obiettori come i testimoni di Geova ed il mio discorso, che non fa discriminazioni fra i detenuti "comuni" e politici o religiosi, li lascia interdetti. Per il momento desistono dalla "operazione". Ritorneranno alla carica nei giorni successivi, anche se con sempre minore convinzione. Inizio a conoscere i compagni di camerata. Più della metà sono "pregiudicati", con vari anni di carcere "civile" sulle spalle. Non è difficile aprire con loro un dialogo : sembrano i più duri ma, una volta superata la barriera di diffidenza, si sfogano raccontandomi la loro vita, i loro problemi, le ragioni della loro attuale condizione. Girolamo Gullace entra pochi giorni dopo di me, e subito provano con la supposta. E' abituato da sempre agli ambienti violenti della "mala", è un "duro" che non si lascia "mettere i piedi in testa da nessuno" e, quindi, i compagni di cella capiscono che potrebbe finire male per tutti e lo lasciano stare. Intervengo nella discussione, a suo favore. Me ne è molto grato. Mi racconta che a 15 anni supplisce alla impossibilità dei genitori di fornirgli anche solo e di rado poche lire rubacchiando con gli amici nelle auto lasciate in sosta aperte, o con qualche furto di poche migliaia di lire nei negozi. A sedici anni finisce in riformatorio, la scuola elementare del "crimine". Qui inizia ad imparare i sistemi per aprire le macchine, fare gli scippi o piccole truffe. Una volta uscito, decide però di trovarsi un lavoro. Per circa un anno, emigrato a Torino, cerca un posto qualsiasi: inoltre alle sue domande, quando ripassa, la risposta è sempre la stessa: "siamo al completo, provi fra qualche mese". Nessuno si fida di un pregiudicato. I soldi non ci sono, la famiglia è lontana e comunque non può dargli alcun aiuto, e quindi si trova inserito nel mondo della "mala", prima come gregario, poi iniziando a fare "lavoretti" in proprio. Il carcere, dove periodicamente finisce, perfeziona la sua tecnica.

Sono poi storie incredibili (che avrò ben presto la possibilità di verificare) delle condizioni inumane dei carceri "civili", dei pestaggi, del tentato suicidio come unico mezzo per non subire ulteriori angherie, dalla lametta sempre in bocca pronta all'uso o alla minaccia d'uso, della puntuale imposizione dei rapporti omosessuali, dello sfruttamento organizzato di questa manodopera a poco prezzo. Parlando si incazza e maledisce la sua situazione, maledisce chi lo costringe prima al furto e poi lo manda in galera o lo fa pestare dalla polizia negandogli ogni possibilità di uscire da questa situazione. Come dargli torto? Non posso che ripetergli che non è possibile condannare chi ruba poche migliaia o a volte alcuni milioni di lire quando si consente il furto di miliardi e l'assassinio di massa legalizzati, che non è possibile condannare chi, quando è nato, è già condannato alla miseria e ad essere sfruttato o al furto, senza condannare le cause e le ragioni della miseria e dello sfruttamento.

Capisce che sono sostanzialmente con lui, contro chi lo ha costretto ad una vita che non ha difficoltà a capire essere senza sbocchi. Diveniamo amici. Cerco di pensare con lui a possibili soluzioni. Non le trovo. Conclude: "Se riesco a fare un colpo buono metto su un laboratorio di camiceria con la mia compagna e smetto questa vita". Probabilmente non ci riuscirà mai. Mentre mi spiega perché è dentro per mancanza alla chiamata, due detenuti incominciano a prendersi a male parole. Passano ai fatti, esce un coltello. Valerio mi aveva avvertito delle frequenti risse e mi aveva consigliato di non intervenire mai: si possono rimediare coltellate! Cerco di dividerli, con molta paura, e di aprire un discorso sulle condizioni carcerarie. I due mandano a fare in culo dicendomi di non seccarli con la politica, ma perlomeno smettono di litigare.

Gli avvenimenti di questa giornata non finiscono qui: verso mezzanotte si sente un vociare nel corridoio e vedo, attraverso le inferriate del cancello, alcuni caporali che portano a peso un detenuto con la schiuma che esce dalla bocca. Dopo circa dieci minuti si ripete la stessa scena. Prima era stato portato in infermeria, ora lo portano fuori. Riesco a sapere da un infermiere che si tratta di Paolo Costantino - per la seconda volta in carcere per mancanza alla chiamata - che ha ingerito un topicida, prendendolo dalle cucine dove lavora. Rimane più di mezz'ora nell'entrata del carcere fino a quando il maresciallo di servizio

riesce a trovare una macchina per portarlo all'Ospedale di Verona. Resterà in coma per alcuni giorni, ma riuscirà a farcela. Timido, introverso, mite, non sa difendersi: anche, altri detenuti lo dileggiano, ricreano - a sue spese - la loro "superiorità". "Meglio morire".

Quasi ogni sera sono spettatore di crisi isteriche, di tentati suicidi. Il medico, un sottotenente di leva, è costretto quasi ogni notte, a venire in carcere. Un detenuto che lavora in infermeria ci riferisce quello che vede.

Claudio mi indica, nel cortile, un detenuto che siede appartato, sulla panca. Si chiama Sala. Epilettico, aggravatosi a seguito di un incidente stradale, viene sbattuto a Peschiera per mancanza alla chiamata, ricoverato per dieci giorni all'Ospedale militare di Verona, poi ritorna in carcere. E' colto da una crisi. Si contorce nella branda. Maseracchia prende a calci la branda. Lo minaccia di sbatterlo in cella se non si fa passare la crisi. Con due pedate, lo spinge in cortile. Continuano le crisi e i pianti di Sala, che non vuole chiamare l'infermiere perché ha paura delle minacce di Maseracchia.

(Valerio Minnella rischia la denunzia per calunnia in seguito alla pubblicazione su Settegiorni di un diario in cui si narra questo episodio e che gli viene attribuito. Numerosi testimoni sono stati presenti al fatto che qui viene precisamente ricostruito.)

27 marzo - Nelle ore di "aria" ho potuto vedere i compagni obiettori del braccio est, Minnella, Peila, Rosa e Bedussi. Nell'altro braccio sono rinchiusi Amari, Truddaiu, Bovi Campeggi e Reggiori, con i quali riusciamo ad avere solo rapidi incontri in cucina o dal barbiere. In queste ore ci scambiamo le esperienze della camerata, discutiamo dei problemi che ogni giorno la nostra condizione di detenuti ci propone. Il disegno di Nestorini di dividerci in camerate diverse, perché assieme avremmo potuto organizzare non si sa cosa, si rivela uno sbaglio: divisi per camerate, riusciamo ad intervenire praticamente presso tutti i detenuti, a conoscere ogni nuovo, a sapere praticamente tutto quello che accade in carcere.

Nelle ore di "aria" possiamo poi comodamente vederci ed informarci reciprocamente. La situazione è diversa per Gianni Rosa e Valerio Minnella che sono nella camerata dei testimoni di Geova. Costoro (54 persone, divise in tre camerate) sono gli unici detenuti con cui non riusciamo ad aprire alcun dialogo. Decisamente settari, privilegiati per moltissime cose, professano la propria neutralità nelle cose del carcere. Inutilmente, si cerca di far loro comprendere che non può esistere "neutralità" di fronte alla palese ingiustizia che rappresenta il carcere; che, in occasione di abusi e violenze contro altri compagni detenuti, far parte a sé, significa sostanzialmente essere dalla parte del più forte, di chi compie gli abusi anche perché questi conta sulla indifferenza, sulla neutralità, sulla paura degli altri. Cerco di farli riflettere sul significato di queste cose citando il versetto della bibbia (che è il loro unico "libro di testo") "Chi non è con me, è contro di me". Niente da fare. Per loro il carcere è il seminario in cui passano tutti i nuovi adepti. Organizzano infatti le loro giornate con la massima disciplina, con corsi di studio della bibbia, dibattiti, lavori manuali, funzioni religiose. Nelle loro camerate è appeso un tabellone in cui sono indicate le attività e le ore in cui devono essere rigorosamente svolte. Hanno il permesso di ricevere e persino diffondere il loro settimanale "La Torre di Guardia", di fare propaganda e proseliti fra i detenuti e fra i caporali, di tenere in carcere tutti gli strumenti di cui hanno bisogno come coltelli, seghe, trapani, telai, chiodi, corde, di avere colloqui con i familiari, quando e per il tempo che desiderano, di inviare "lettere di testimonianza" agli indirizzi che reperiscono nel carcere per propagandare la loro organizzazione.

Il capitano è ben lieto di permettere questi privilegi, assolutamente vietati ai detenuti comuni, perché questi "detenuti modello" rappresentano l'ostacolo insormontabile per ogni protesta collettiva, per ogni tentativo di rifiuto di servizi particolarmente duri: i "testimoni" sono sempre disponibili per ogni lavoro che venga loro richiesto dalla direzione. Sono perciò detestati da tutti gli altri, anche perché le loro camerate sono piene di generi alimentari e di oggetti assolutamente sconosciuti da tutti. Trattano poi con disprezzo i "comuni", o al massimo quali oggetto di conversione.

29 marzo - Approfondisco la conoscenza con gli altri compagni di cella: il gruppo degli alpini denunciati per violata consegna, per essersi allontanati dal posto di guardia, mi raccontano del loro lavoro infernale nel battaglione artiglieria da montagna: "I muli contavano più di noi, se si ferivano o erano stati strigliati male venivamo puniti mentre per i calci in faccia o sulle palle che ogni tanto ci rifilavano non succedeva niente" ..."meglio il carcere che quella vita d'inferno, a far la guardia, di notte con la neve, ai muli o alla polveriera vuota, e il tenente che sbucava d'improvviso per controllare se eravamo svegli e all'erta"...Uno dice: "Lo avremo fatto fuori, se si fosse presentato ancora d'improvviso durante il turno di guardia della notte; abbiamo l'ordine di sparare contro gli sconosciuti che s'avvicinano"; Walter, muratore, aveva prolungato la licenza di una settimana per restare ancora con la fidanzata; Vincenzo Fortemurato, con il corpo segnato di tatuaggi, emigrato in Germania, rimpatriato dopo sei mesi di detenzione per furto, arrestato per mancanza alla chiamata al confine. Gino, arrestato per diserzione; senza genitori, nè parenti, nè amici, timidissimo, non sopportava la vita di caserma dove era preso di mira da tutti con gli scherzi più crudeli. Non andava mai in licenza, non sapeva dove andare e comunque non aveva soldi per spostarsi. Aveva trovato un lavoro di commesso in libreria a Torino ed aveva disertato per più di sei mesi. Giuseppe, sardo, era uscito di caserma senza permesso ed era stato beccato dalla ronda con un tenentino, ma era riuscito a scappare e rientrare in caserma. Il tenentino lo aveva cercato e trovato in camerata, riempiendolo d'insulti. Giuseppe aveva reagito prendendolo a pugni. Renato Bianco, il bersagliere denunciato perché si è impossessato di una divisa sperimentale, mi racconta della nuova utilizzazione della sua Arma: "Prima siamo intervenuti in un liceo di Rovigo. Il primo giorno gli studenti ce le hanno date. Il giorno dopo li abbiamo aspettati in aula e gliene abbiamo date di santa ragione. L'ordine era di pestare con il calcio del fucile ma non tanto da romperlo, in quel caso saremmo stati puniti per danneggiamento. Nell'estate del '71 ci hanno trasferiti tutti a Bari e quindi siamo andati con gli M 113 a Reggio Calabria. Ho avuto molto paura, dovevo colpire per primo per non essere ammazzato. Abbiamo anche sparato. Il 2 giugno ero in Sardegna e siamo intervenuti contro una manifestazione della popolazione sarda che non voleva parate militari caserme, basi NATO. Abbiamo sparato in aria. Il mio amico si è sbagliato ed ha tirato una raffica pochi centimetri sopra le teste dei manifestanti.

In Sardegna ci massacravano con gli allenamenti. Corse sotto il sole per chilometri allenamenti sulle montagne". "Ma non ti faceva schifo colpire i manifestanti?". "Questo era l'ordine, se non facevamo ci avrebbero mandato a Gaeta e comunque le avremmo prese dai manifestanti. Meglio loro che noi. " Nei giorni successivi cambierà molte di queste idee.

1 aprile - Ogni nuovo arrivato, ogni caso personale, i processi, le condanne assurde, il clima di autoritarismo e di minaccia sono spunti per parlare, per commentare. Anche i più restii a sbottonarsi, come Veneziano, incominciano a partecipare alle discussioni che si svolgono in camerata. Nei momenti di maggiore incazzatura per qualche punizione, quando la maggioranza vorrebbe, almeno a parole, "spaccare tutto come alla Nuove", non è facile convincerli che cosi' facendo faremmo il gioco dei superiori, daremmo occasioni per punizioni durissime. Cerco di portare avanti il discorso non violento, parlando dei metodi di disobbedire collettiva, della necessità che ci sia un minimo di unità fra i detenuti.

Ma tutto sembra morire sul nascere, per la reciproca diffidenza. Ogni detenuto sa di poter essere ricattato in mille modi dal comandante: il rapporto che verrà consegnato ai giudici, i piccoli lavori male retribuiti del carcere, la censura sulla posta, i colloqui, la possibilità di fare spesa esterna, il regolamento, poi, che pende come vera spada di Damocle sulla testa del carcerato militare. Mi rendo conto che solo un lungo lavoro, con i rischi connessi al fatto che Peschiera è un carcere di passaggio, potrebbe permettere qualche risultato e la conquista di qualche diritto interno. L'elemento fondamentale, la cosa di cui ha paura la direzione del carcere, è il collegamento organizzato con l'esterno, la pubblicizzazione di ciò che avviene in carcere.

3 aprile - In cortile riesco ad attaccar discorso con il tenente Zanzottera: uno spunto per creare momenti di dibattito collettivo sui problemi che riguardano la nostra condizione, l'esercito. Il tenente si mostra disponibile, con atteggiamento paternalistico gira in cortile chiacchierando con i detenuti. E' abbastanza facile fermarlo, provocarlo alla discussione con considerazioni sull'esercito, coinvolgervi molti detenuti. Il dibattito continua poi nelle camerate. Questa scena si è ripetuta già varie volte, con l'immancabile dichiarazione del tenente: "Ora dovrò autopunirmi perché ho permesso che si parli di politica in carcere!". Bedussi è molto preoccupato per questa mia attività che ritiene troppo scoperta. Sta ancora pagando il suo atteggiamento duro e non compromissorio verso il comandante: è stato condannato a due mesi di carcere per non aver staccato con prontezza due poesie d'amore dal muro della cella.

Durante l'aria conosco altri detenuti: Onesti è il simpatico del carcere. E' un po' "beat" e riesce a sfottere i sottufficiali ed anche Zanzottera. Prima faceva la sentinella sugli spalti del carcere e poteva, quindi, vederci, capire le nostre condizioni di vita. Una sera scrive "questo carcere non dovrebbe esistere, perché è il simbolo di repressione antisociale e di dittatura. Siamo nell'anno 1972 e tutto possono fare fuorchè fermare il tempo". Sconta ora con noi i sette mesi della condanna.

I due poliziotti arrestati per la manifestazione di protesta dei 500 P.S. di Torino sono ormai stati accettati da tutti. Bedussi mi racconta che all'inizio i detenuti, in particolar modo i "comuni" volevano picchiarli. Con il passare del tempo sono riusciti a farsi accettare, modificando molte delle loro idee. Parlo con Trevi che è il più intelligente e simpatico: "Sono entrato nella polizia dopo aver litigato con mio padre che gestisce una pompa di benzina a Latina. volevo essere indipendente ed ero stufo di quella vita noiosa". "A Torino cosa è successo?". "La manifestazione è stata completamente travisata dai giornali. Forse è stata una fortuna. Era nata come dimostrazione di "destra". I miei colleghi volevano applicare il regolamento, far chiudere tutti gli esercizi pubblici illegali, cioè la maggioranza, multare con la massima ammenda gli automobilisti sorpresi in torto, fare una specie di sciopero bianco per protestare contro le limitazioni che vengono poste alle nostre prerogative di poliziotti e per la riforma di alcune norme interne, come il divieto di sposarsi prima di 26 anni. Sono riuscito a convincerli a non fare tutto ciò ed a marciare, invece, inquadrati per via Roma, di notte. Qualcuno deve aver chiamato un fotografo e cosi' è nato il casino. A me e a Papa ci hanno arrestati perché eravamo i più anziani e gli unici che non si sono cacati sotto davanti al comandante".

Dopo mesi di detenzione, a diretto contatto con i "ladri" si è perlomeno convinto che non è vero che "non hanno voglia di lavorare e preferiscono la bella vita". Non ha ancora deciso se rimanere nella polizia.

Il momento della distribuzione della posta è quello che aspettiamo con maggiore ansia. Quando nel cortile arriva il sergente con il pacco di lettere accorriamo, tutti, famelici, sperando di ricevere qualcosa dal "mondo", di ricongiungerci finalmeIl momento della distribuzione della posta è quello che aspettiamo con maggiore ansia. Quando nel cortile arriva il sergente con il pacco di lettere accorriamo, tutti, famelici, sperando di ricevere qualcosa dal "mondo", di ricongiungerci finalmente con tutto ciò che abbiamo lasciato fuori. Questa specie di raptus collettivo colpisce anche chi non riceverà mai niente perché nessuno sa, nessuno sospetta della sua condizione di detenuto, nella "Caserma XXX Maggio". Costoro si contentano di farsi informare, sulle novità del "mondo", dai fortunati: Fortemurato..., Bedussi..., Peila...; Peila... sono le sorelle e la ragazza che ogni giorno gli scrivono...; Minnella... deve essere Ines con le sue bellissime lettere alla Ginsberg e i disegni psichedelici, o una delle sue numerosissime ragazze; Rosa... finalmente, erano giorni che aspettava.

La posta arriva sempre con molti giorni di ritardo. Spesso viene spedita alla procura di Torino per la censura e qui impiega anche un mese per ritornare a Peschiera. Dalle risposte possiamo verificare anche i ritardi pazzeschi con cui vengono spedite. Le lettere più politiche vengono regolarmente fotocopiate dal tenente Milano, che si occupa della censura. Tutta la nostra corrispondenza passa comunque nelle mani del comandante. Si vuole evitare che notizie sul carcere escano all'esterno, o che comunque, ci siano azioni coordinate. Una lettera di Magda in cui mi racconta dei suoi gatti e dei fiori rimane per molte settimane negli uffici della procura di Torino (le lettere censurate a Torino sono timbrate in un modo particolare), sospettano che "gatti" e "fiori" faccian parte di un nostro "codice cifrato".

La prima lettera mi arriva dopo due giorni di carcere, il 13. E' di Fausta Mancini Lapenna. Avevo parlato con lei per pochi minuti, ad Udine, prima di un dibattito sull'obiezione di coscienza che avevamo organizzato a febbraio.

"... le scrivo per dirle la mia amicizia e la mia simpatia. A dire il vero vorrei proprio pregarla di darci del tu. Non so se sai che ora faccio parte anch'io del P.R. Inoltre da molti anni un'infinità di giovani mi ha adottata per zia e mi chiamano in breve Zifà e mi danno del tu. Ci conosciamo poco, ma è nei tratti essenziali che si accentrano le reciproche simpatie. Viviamo le stesse ansie, lottiamo per comuni finalità e questo, molto più che la moneta che corre oggigiorno, lega gli esseri umani di seri vincoli...".

Mi arriva in cella e mi procura un enorme piacere.

Il 14 arrivano i telegrammi di Lino Jannuzzi e dei radicali reggiani. Il giorno dopo quelli di Ennio Bonea, Canestrini, Loris Fortuna. Il caporale che me li porta mi chiede cosa ho fatto per provocare le attenzioni di deputati. Il 16 mi arriva un libro, me lo manda Zifà: "Vittorio Emanuele II", di Mack Smith. Il 24, Nestorini mi chiama per consegnarmi personalmente una lettera dove Marco mi racconta le ultime novità del partito, dei rapporti con Il Manifesto. Giancarlo e Daniela e la Comunità S. Paolo il 30.

"... il processo per il 2 giugno è stato rinviato perché non tutti gli imputati erano stati avvertiti... ho ricevuto qualche giorno fa la convocazione per il 25 maggio... penso che la portiera si sia spaventata, mi guarda sempre come se volesse chiedere spiegazioni: tu al carcere militare, i carabinieri per me; appena avrò tempo farò un comizietto a lei e alle comari qua sotto... bc. bc." Liliana, 11 aprile.

"... sono contento che vai facendo il "callo" a questa naja rafforzata. Senz'altro uscirai rafforzato da questa esperienza, anche se dirti ciò mi rattrista poiché significa mitizzare o comunque privilegiare il "sacrificio" , a cui si vuol far risalire la forza e la qualità del nostro carattere e della nostra volontà. E tu sai che questo è un bel discorso di "violenza" con cui si cerca di condizionare dall'interno, dal proprio io, l'uomo, per renderlo docile strumento della comune morale, mentre la non violenza dovrebbe prima di tutto essere applicata nei confronti di noi stessi.

Penso, quindi, che questa esperienza potrà esserti utile non per il sacrificio che comporta, ma solo perché gestita ed amministrata da te e da noi, da radicali, con vero spirito non violento e con la possibilità di essere trasformata in una delle tante battaglie libertarie e civili, a cui il nostro impegno, stimolato dalla necessità contingente, dia le prospettive di una concreta ed attuale vittoria... il 10 aprile sei stato citato in giudizio per direttissima, con Marco, per il manifesto ed il numero di notizie radicali relativo a "Quando la patria chiama rispondiamo NO..." Giuseppe Ramadori, 11 aprile.

5 aprile - Sentiamo, dalle camerate, urla provenienti dalle celle di isolamento. "deve essere Doni, che si allena al karatè" commenta un detenuto. Vengo a sapere che si tratta di Provenzano, del braccio ovest, il quale si è rifiutato di partire per Gaeta. Mi dicono che è stato portato in cella di peso, e "accarezzato" da Doni, Maseracchia, ed altri sergenti. In camerata ne discutiamo molto. Cosa si può fare? Niente, per ora. Chiedo ai vecchi detenuti se la cosa accade spesso. La risposta è affermativa. Lo avevo letto del resto anche nel diario di Mario Pizzola. Comincio a prendere appunti; i nomi, le date.

Angelino Giovanni ritorna distrutto dal processo. Lo conoscevo solo di vista. Giocava sempre a pallone o pallavolo. E' di Napoli, semianalfabeta, completamente spoliticizzato. E' stato condannato dal tribunale di Padova ad un anno e 4 mesi, per aver fatto il verso della zanzara ad un sottotenente. Nel linguaggio di caserma (e di camerata) la "zanzara" è il pivello, il nuovo venuto. Durante il rancio Angelino aveva emesso questo "suono" alla presenza di un nuovo sottotenente permaloso. I suoi compagni lo avevano invitato a ripeterlo e lui lo aveva fatto.

Il processo è stato brevissimo. Il giudice si è soffermato a chiedere ai testimoni quante volte Angelino avesse fatto "zzz"... Il presidente ha anche invitato Angelino a riferire il verso "...ma devo proprio farlo?". "Certo, te lo ordino!" "zzz...". "Tenente lei conferma? Era "zzz" o "sss"? Quanto era prolungato?".

"un anno e sei mesi qui dentro? Io impazzisco, mi ammazzo!". Cerchiamo di calmarlo. Gli prometto di scrivere ad un buon avvocato per la difesa dinanzi al Tribunale Supremo. La notizia circola, esplode come una bomba per tutto il carcere. Ecco cosa significano i condizionamenti di classe. "Sapevo" cosa significhi la "difesa" d'ufficio; con il partito avevamo per anni promosso contestazioni giudiziarie su questo punto. Ma sono ugualmente sorpreso dall'immediatezza, dell'importanza che assume un "servizio" che mi era venuto naturalmente di proporre.

E' la prima scintilla. Ne parlo molto, anche nei "comizietti" con Zanzottera. Mi sembra un caso che chiarisce perfettamente il ruolo di questi tribunali, e non solo di questi. Bedussi mi avverte ancora che esagero, che mi espongo troppo. Uscendo dalla camerata, il sergente Maseracchia, un "duro" un po' cretino che ostentatamente legge "Il Borghese", mi invita in un angolo dell'infermeria. Dice che mi deve parlare. "Se parli ancora di politica ti spezzo le ossa. Ti ho avvertito". Rimango di merda. Non me l'aspettavo.

In camerata l'affiatamento aumenta. Parlo molto con Renato, il bersagliere, e Girolamo Gullace. Girolamo mi racconta le sue storie del carcere, dei furti, della sua infanzia. Lo aiuto a scrivere le lettere alla compagna. "Mi segue da anni per tutti i carceri d'Italia. Gli rendo la vita impossibile. Quando siamo a casa di notte, ha paura di ogni rumore. Si aspetta sempre l'irruzione della polizia. Abbiamo una bambina. Dovrei smettere questa vita d'inferno".

Lo zingaro, arrestato mentre girava con il Luna Park per mancanza alla chiamata, prova a scrivere il suo nome. E' analfabeta. Prima andava a scuola del carcere, ma si sentiva trattato come un bambino dal maestro, che è anche il sindaco di Peschiera. Vincenzo Fontemurato riceve la solita lettera dell'avvocato d'ufficio, Roberto De Leo. E' una circolare, con il nome del detenuto scritto a mano, in cui si comunica: che il reato prevede la reclusione di anni "...due", (scritto a mano) e che la tariffa per la nomina come avvocato di fiducia è di "... 40.000 lire" (scritto a mano). Naturalmente Vincenzo la straccia. Quasi tutti i detenuti che conosco sono difesi dall'avvocato d'ufficio, sia perché non hanno i soldi sia perché cosi' vengono consigliati dai rispettivi comandanti. per questo i processi durano pochi minuti. E' difficile che qualcuno venga assolto.

Arriva un detenuto nuovo, Roberto, alpino, iscritto al PCI. Nel corpo disobbediva sempre. Si era fatto 100 giorni di CPR, poi lo hanno sbattuto a Peschiera. Parla poco e legge molti fumetti. Non gliene mancano di certo. In carcere circolano Diabolik, Satanik, Hessa, Lucrezia, che sono oggetto di scambi fra le camerate ed anche con i caporali. Il prete distribuisce Famiglia Cristiana che in genere viene utilizzata per accendere i fornellini a spirito nelle camerate. Allo spaccio sono in vendita due o tre copie de "Il Giorno" e "Il Corriere della Sera". "ABC" entra di nascosto ed è oggetto di baratti. Porto in camerata "Il Messaggero" e "Il Giorno" che mi arrivano in abbonamento. Sono letti e commentati da tutti. "Notizie Radicali" che siamo riusciti a far entrare, è ridotto ad uno straccio. Lo devo accartocciare e nascondere fra i miei vestiti per farlo leggere al maggior numero di persone. Sono interessati solo dal fatto che c'è la mia fotografia e dalla marcia antimilitarista? Renato, friulano, mi assicura che verrà. Valerio è entusiasta del progetto di festival-pop: "Se mi danno 4 e 20 giorni come a Scapin posso venire alla marcia!".

Incominciano le previsioni e le illusioni sulle condanne. Qualche compagno della camerata mi chiede del partito radicale, ma solo sul piano della curiosità. Con Claudio, Valerio, Alerino e Gianni ne discutiamo molto. La funzione insostituibile del partito appare a noi, dentro, ancora più evidente. E' il partito il punto di riferimento di ogni iniziativa, di ogni progetto. "Ma allora perché non ti iscrivi?". "Ci penserò".

7 aprile - Veneziano, il "capo camerata", che fino ad oggi ha fatto un po' il ruffiano, occupandosi della pulizia della camerata e dei turni per gli altri servizi, facendo perfino i lavori di sartoria per i caporali, perché spera in una buona "nota" del comandante del carcere per il suo processo di revisione, sbotta: "Il comandante del mio reggimento mi aveva scritto di non nominare

avvocati di fiducia, ma solo gente dell'ambiente, perché cosi' ci avrebbe messo una buona parola, e l'ho fatto. Nestorini mi aveva detto che se facevo il buono in carcere mi avrebbero sicuramente diminuito la condanna, ed ho leccato sempre il culo, in questi sei mesi. Basta! Sono stato un grandissimo stronzo! E mi sono anche tagliato i capelli per il processo! Mi dimetto da capo camerata. Ora fate quello che volete. E per quanto mi riguarda questi stronzi i vestiti se li faranno cucire dal sarto". Sono molto contento per questa decisione. E' molto importante, rappresenta il primo successo della nostra azione.

9 aprile - De Simoni è in cella. Vengo a sapere che è stato "accarezzato" due volte. La tecnica è sempre uguale: Doni, Maseracchia e altri tre o quattro sottufficiali entrano in cella e con il pretesto della perquisizione regolamentare ti obbligano a spogliarti completamente. La cella è stretta, il detenuto può ritenere eccessive queste attenzioni, i sottufficiali possono essere costretti a difendersi dalle violenze del detenuto e a pestarlo, naturalmente per legittima difesa! Dieci giorni di cella saranno sufficienti perché i segni sul corpo scompaiono, e comunque per far capire al detenuto che è meglio non mettersi contro i "superiori". In ogni caso sei testimoni sono sempre sufficienti per far condannare chiunque per violenze, oltraggio, magari insubordinazione.

Questa volta cerchiamo di fare qualcosa.

Comincio anch'io a sapermi muovere. Riesco a far avere a De Simone sigarette, latte, fumetti. Scrivo il mio nome sulla busta del latte, per far capire a Domenico che ci stiamo occupando della cosa. Riesco a scambiarci qualche parola, attraverso la finestrella del cesso delle celle, ma devo subito allontanarmi per il sopraggiungere del maresciallo. Bedussi ci riprova e si fa confermare i maltrattamenti. Parlo di quello che succede nelle celle in modo sempre più esplicito, anche con Zanzottera. Noto un aumento di attenzione dei sottufficiali ai nostri discorsi: c'è sempre un graduato che si avvicina appena ci riuniamo per parlare. Riusciamo a far uscire queste notizie. Qualche caporale vince la paura e ci dà una mano. Abbiamo però anche agli altri mezzi di comunicazione con l'esterno: il carcere rende ingegnosi. Eugenio Scalfari ci invia un telegramma. Ci sollecita, fra l'altro a continuare a inviare ai parlamentari informazioni sulle condizioni di vita dei detenuti. Evidentemente, Scalfari allude al diario di Pizzola e alle informazioni date in genere, e a tempo, dal partito. Da una parte siamo contenti per l'interessamento ed il riuscito collegamento con parlamentari, ma abbiamo anche paura. Paura che l'accenno possa essere interpretato come indizio di una nostra attività interna, e accentuare i controlli già rigorosi, e rendere insomma ancora più difficoltosa la nostra azione. Ci preoccupa anche il ritardo con cui ci viene consegnato il telegramma: arrivato dall'ufficio postale di Peschiera il 30 marzo, noi lo riceviamo oggi.

10 aprile - Arrivano tre preti "missionari" per un ciclo di riunioni. La mattina, introduce l'assemblea il più giovane, che è anche il più disponibile al dialogo sui nostri problemi. Alla domanda sul perché ci troviamo qui dentro rispondiamo tutti, circa un ottantina: "Siamo obiettori ". E' un grosso successo. L'azione sviluppata precedentemente per la presa di coscienza della identità sostanziale della nostra condizione di detenuti militari ottiene un primo risultato. Il prete rimane sconcertato. Riusciamo ad imporre un ordine di discussione per le altre riunioni: Autorità, giustizia, condizioni e funzioni del carcere, testimonianze, conclusioni operative.

Nel pomeriggio, evidentemente dopo un colloquio con Nestorini che capisce perfettamente la pericolosità di simili dibattiti, il prete missionario più vecchio, "dimenticato" completamente il programma impostato, porta avanti per circa un'ora un discorso sull'esistenza di Dio, di una banalità sconcertante. Alcuni detenuti, che avevano convinto a partecipare alla riunione invece di giocare a pallone, incominciano ad andarsene o a mostrare segni di insofferenza. Cerco di interrompere il prete, ma non c'è niente da fare. Continua per un'altra mezz'ora. Bedussi prende molti appunti sul dibattito, eccoli:

Primo prete: Noi siamo venuti a portarvi una parola di comprensione, di fraternità da parte di Cristo; e vogliamo farvi un discorso di chiarezza e di lealtà. Accetteremo le vostre osservazioni e anche le vostre contestazioni. Sentiamo la vostra amarezza e cerchiamo di fare la nostra parte, prima di fronte a Dio, poi di fronte all'uomo. Noi facciamo ciò che possiamo, ma del resto non dipende nè da me nè da voi cambiare le cose. Voi giovani siete pieni di carica ideale e di giustizia e speriamo che in futuro continuiate. Noi dobbiamo predicare Cristo al di fuori e al di sopra di tutto. Noi pur condividendo i vostri ideali di giustizia cerchiamo di fare un discorso più religioso. Almeno saprete che c'è una voce e un volto amico. Non ho mai chiesto a nessuno di che partito fosse - tu sei un fratello -, dicevo e subito s'instaurava un clima caldo. Tutto passa: il carcere il militare, ma rimane la fratellanza, l'uomo con il suo bisogno d'amore sempre inesausto. Poi lasciamo a Dio lo sviluppo della semenza che noi mettiamo nei vostri cuori. Abbiamo parlato con carcerati, vecchi, fidanzati, genitori, e questi incontri sono stati arricchimento interiore per noi.

(Cosa vuol dire arricchimento interiore? - mi chiede un detenuto seduto vicino a me.)

Noi c'inchiniamo - prosegue il missionario - davanti ad alcune persone che pagano di persona, ma voi capite che il dolore nella vita si manifesta sotto tante forme. Per questo dobbiamo chiederci:

- E' Dio che ha voluto cosi'? E' Dio che ha voluto il dolore? E' sempre stato cosi' nella storia? E perché il dolore? La mia vita che senso ha? Se anche avessi tutto, anche l'amore, io esaurisco la mia esistenza qui?

Certo i beni sono meravigliosi , ma noi vediamo che non bastano. Si fa fatica a dirlo a dei giovani inesperti come voi, perché in genere la gioventù si ferma a quelli che sono i valori del momento e non va al di là. Io chiedo non c'è qualcosa di più?

Conoscete Pavese? Ebbene con il suo mestiere di vivere, ha pure fallito, si suicidò. E magari voleva insegnare anche agli altri questo mestiere. E Ardigò, un filosofo, disse: Perché la vita? e si suicidò con la sua filosofia incapace di aiutarlo a vivere.

Purtroppo molti li fermi per strada e se gli domandi cos'è il senso della vita rispondono: più giustizia, ecc. ecc.

Ma questo non basta dico io. Il cuore umano va più in là, esso contiene aspirazioni più profonde, al di là del traguardo umano.

E voi qua che chiedete il perché di molte cose che non vanno ora voi capite che questi problemi dovete risolverli voi personalmente, ah, ma non vorrei essere frainteso, non sto parlando dei problemi sociali: ma di quelli spirituali religiosi che sono la chiave per capire il dolore del mondo.

Voi direte: abbiamo dei problemi immediati che dobbiamo risolvere. Oh, non è mica cosi'. Ognuno di voi a un certo punto si chiede perché queste ingiustizie e poi, vista l'impossibilità di rispondere passa ad altre domande: perché vivo?

E a queste domande qualche smaliziato trova sempre una risposta.

Rifacciamo la catena: io sono nato dai miei genitori e i miei genitori dai loro e cosi' via, fino a che dobbiamo fermarci a dire, va bè, ma al principio?

(Esempio di bar, pantomime, anatomia, apparato digerente, orecchio per dimostrare che ad ogni effetto corrisponde una causa prima.)

Qualcuno risponde: Il mondo si è fatto da sé.

Risponde, voi capite, che allora anche la sigaretta che teniamo in mano si è fatta da sé.

Allora quel tale ribatte: Ah, voi preti avete studiato e con voi non si può ragionare.

A questo punto il discorso dura ormai da lungo tempo e da quel che posso vedere i detenuti non prestano più attenzione.

Intervento di Cicciomessere: Ma doveva essere un dibattito non un comizio.

Primo prete: Va bè, subito, finisco.

Ciccio: E' un chiaro modo di prenderci in giro. Si capisce perché la religione è il sostegno del potere.

Gesù Cristo ha convinto gli ignoranti e gli analfabeti perché è andato con loro non facendo discorsi di causa-effetto.

Verifichiamo quindi se rivolgendo i problemi di giustizia immediata non sia portare avanti il discorso della fede. Nessuno qui dentro cerca il benessere, bensì' il pane. Lei ha dimostrato ampiamente che in questo carcere non si può parlare, dato che stamattina il discorso si era impostato diversamente, ma poi i colloqui che avete avuto con i dirigenti qui del carcere...

Altro prete: Stamattina abbiamo cercato di impostare il discorso come volevate voi. Ma poi parlando tra noi, è emersa la linea per la quale il discorso religioso, poi quello sociale che potrebbe emergere eventualmente dalla discussione. Ognuno ha suoi problemi e se qualcuno vuol fermarsi dopo.

Ciccio: Tutti abbiamo gli stessi problemi, visto che siamo qui dentro.

Primo prete: E' un discorso che è esterno a noi il tuo, il nostro interesse è questo: RELIGIOSO.

Altro detenuto: Però non era così stamattina.

Altro prete: Sì, ma guardando meglio le cose, parlando fra noi, abbiamo deciso di parlare delle nostre prospettive, per aiutarvi un po'.

Ciccio: Ma in pratica cosa avete da dirci?

Primo prete: Tu vedi Cristo solo sotto l'aspetto sociologico e questo non è giusto. Cristo non è venuto per risolvere il problema del pane in più, ma per fare un discorso spirituale.

A questo punto diamo lettura di Libanio (un libro epistolare scritto da un Domenicano incarcerato nell'America Latina assieme a quattro suoi compagni per aver dato rifugio a perseguitati politici. Nel libro si parla di una chiesa del carcere, dell'incarcerazione nella realtà sociale del credente, l'aiuto al fratello non più visto solo sotto l'aspetto beneficienza - pacche sulle spalle - invito ai ricchi all'elemosina, bensì come un impegno concreto a modificare tutte quelle strutture-cause economico sociali che portano allo sfruttamento. Ne leggiamo una lettera.)

Primo prete: Noi siamo d'accordo con Libanio, propio così.

Ciccio: Ma come potete dire che siete d'accordo se neppure una frase di quanto abbiamo letto, concorda non dico con le vostre azioni, ma nemmeno con le vostre parole, quelle che avete detto fino adesso.

Qui c'è gente che è sposata, ha figli, non ha mai avuto un lavoro, una famiglia, che per un niente si trova qui dentro, guardi, qui c'è uno che s'è beccato 16 mesi di carcere per aver fatto il verso della zanzara ad un tenente. C'è gente portata al servizio militare e deve fare diserzione per mantenere la famiglia a casa. E poi c'è il discorso del carcere. Sapete cosa succede nelle celle? Perché non venite a vedere le nostre camerate, in che stato viviamo, senza niente da fare tutto il giorno. Non sono permessi giornali altro che il "Corriere" e il "Giorno" (ora non c'è più nemmeno quello).

Purtroppo non sono uno stenografo e perdo la parte più importante del discorso, laddove Cicciomessere incomincia ad analizzare la funzione dell'esercito ed il risultato di realtà carceraria che è divenuto per i militari in genere e per i presenti in particolare.

Nel frattempo sono intervenuto anch'io.

Scusate ma credo proprio che stiate parlando al deserto. Non solo usate termini che spesso non vengono capiti, ma anche il testo del discorso va bene per tranquilli borghesi che seduti in poltrona dopo un abbondante pasto hanno modo di pensare all'origine del mondo.

Terzo prete: Noi vogliamo annunciare Cristo. Chi potrà raccogliere questa parola dipende dalla grazia e dalla volontà di ciascuno. Perciò io vorrei che da questo momento i colloqui avessero una linea ben precisa. Il padre propone un argomento e le discussioni devono vertere solo su questo argomento. Non vogliamo essere strumentalizzati o incanalati in discussioni che esulano dalla nostra linea.

Non c'interessa rimanere in 5 o 6, potremo sempre dire: "Siamo andati a Peschiera e abbiamo parlato di Cristo a delle anime".

In questo momento chiamano Valerio al colloquio. Mi viene da pensare che stanno portando avanti molto bene il frazionamento dei colloqui. E' evidente la loro paura che un colloquio Domenica di quattro obiettori contemporaneamente, come avrebbe dovuto essere, portasse "qualche inconveniente".

Nel frattempo il discorso va avanti.

Un detenuto: Padre questo è un mio compaesano, è sposato ha un figlio, che in questi giorni è gravemente ammalato, lei pensa che sia giusto tenerlo qua?

Altro obiettore: Come potete dirvi amici nostri, condividere le nostre sofferenze se non siete mai stati, non avete mai provato cosa vuol dire giorno per giorno sentirsi impotenti a decidere della propria vita, perché c'è sempre una regola, un'imposizione ad ogni attimo che ti ruba capacità di essere uomo.

Primo prete: Sì. Sì... Sì...

Terzo prete: Basta, è inutile discutere, ho detto...

Ciccio: E' un chiaro invito ad andarcene, il vostro discorso sul: "basta, è inutile discutere, o ci seguite sul nostro piano o nessuno vi obbliga a rimanere".

Altro obiettore: Sempre sulla stessa linea.

Primo prete: Basta, basta, è inutile discutere ho detto...

Attenzione qualcuno si sta alzando... tutti si alzano... tutti escono. Uscita collettiva. Uno rimasto per affari suoi.

Nel cortile siamo tutti molto eccitati per quello che è successo: senza alcun accordo preventivo, abbiamo espresso un rifiuto collettivo; abbiamo esposto pubblicamente le critiche che da tempo tutti ci tenevamo dentro o che discutevamo fra pochi; abbiamo denunciato quanto succede in cella; abbiamo dimostrato al comandante la nostra unità. Le due proposte che abbiamo fatto ai preti prima di uscire, di entrare nelle celle d'isolamento per parlare con De Simoni e farsi raccontare quanto è successo e di venire nelle camerate a parlare senza troppi testimoni, non sono state accettate; rendono così più chiaro a tutti i detenuti la funzione subalterna e sostanzialmente corresponsabile dell'oppressione carceraria di questi gestori della religione di stato. Il cappellano militare del carcere è furente. In cortile non ci degna neanche di un saluto. Il prete giovane mi riferisce che si è scagliato contro di me, dicendo che sono un provocatore perdipiù ateo senza titoli per parlare di cose religiose. Si rende conto probabilmente di essere il maggiore responsabile, anche per la tonaca che indossa, della grave situazione carceraria. Da anni vede e conosce quanto succede in carcere, ma trova parole e azioni per impedirlo. Riesce solo a portare qualche sigaretta ai reclusi nelle celle.

Ritorno in camerata dopo il rancio. Doni mi ordina di prendere la branda e lo stipetto e di spostarmi nella camerata dei testimoni. Vincenzo e Girolamo abbozzano una protesta. Quando esco per l'aria pomeridiana vengo a sapere che Nestorini ha incominciato ad interrogare i compagni della mia camerata. Con minacce di condanne "dai 5 ai 15 anni", con appena velati ricatti sul piano personale, con menzogne e doppi giochi, riesce ad estorcere qualche ammissione circa miei presunti tentativi di organizzare una sollevazione dei detenuti. Sento che la situazione sta precipitando. Nella camerata dei testimoni inizio a scrivere una lettera da far arrivare a Marco, per informarlo di quanto sta succedendo. Scrivo dei fatti accaduti in cella d'isolamento, dei tentati suicidi; nomi, date... racconto la faccenda dei missionari, elenco alcuni casi di condanne che più delle altre meritano di essere pubblicizzate.

Prevedo perquisizioni e, quindi, chiedo a Lorenzo Gallo, un testimone con cui qualche volta ero riuscito a dialogare, di conservare la lettera, fino a quando non sia riuscitPrevedo perquisizioni e, quindi, chiedo a Lorenzo Gallo, un testimone con cui qualche volta ero riuscito a dialogare, di conservare la lettera, fino a quando non sia riuscito a farla uscire dal carcere. Il solito discorso sulla neutralità salta fuori. E' il solito rifiuto di prendere una sia pur minima posizione: oltre le chiacchiere, c'è la paura di perdere i privilegi. Mi incazzo, ricordandogli che un loro "fratello" era stato testimone, in cella, dei maltrattamenti, quando sento lo sferragliare delle chiavi sul cancello ed entra il maresciallo Doni che mi ordina di seguirlo. Metto alla rinfusa la lettera nello stipetto guardando insistentemente Lorenzo. Nel corridoio, il cancello delle celle è aperto. Capisco che devo entrare dentro senza che Doni debba dirmelo. Mi trovo, quindi, nella cella in pantofole, senza niente. Ci siamo. Capisco quello che voleva dirmi Claudio.

Questa volta il regolamento carcerario viene rispettato rigorosamente: niente materasso e coperte per tutto il giorno, niente sigarette, niente libri, nessun contatto con l'esterno, con altri compagni. Sono l'unico detenuto nelle celle. Credo di sentire il rumore del mio stipetto trasportato dalla camerata. Incomincio a sperare che Lorenzo abbia sottratto dallo stipetto la lettera, di cui conosce il contenuto.

Non sono più nè sicuro nè calmo. La cella è fredda, il tavolaccio è duro, sono preoccupato e, quindi, non riesco a dormire. Non posso fare altro che guardare il muro con le scritte dei detenuti precedenti (molti simboli pacifisti, maledizioni per il carcere e per i carcerieri, nomi e periodi di detenzione) e pensare alla situazione che mi appare sempre più grave. Per riuscire ad andare al gabinetto devo gridare per molti minuti e, quindi, aspettare Doni, che è divenuto l'unico depositario della chiave delle celle per aprire. Già da questo primo giorno, graffio sul muro una sbarretta per non perdere il controllo del tempo. La consegna del vassoio con il rancio mi consente di avere una idea approssimata delle ore. Chiedo insistentemente di parlare con il capitano per conoscere la ragione del mio isolamento. Nessuna risposta.

Vogliono lasciarmi nell'assoluta ignoranza delle accuse che mi vengono mosse, farmi rodere dai dubbi e dalla paura. E' tutto abbastanza atroce.

13 aprile - Man mano che passano i giorni sento di farcela sempre meno, di crollare da un momento all'altro. Ho, inchiodato nella testa, il dubbio sulla sorte della lettera. Cerco di ricordarmi cosa ho scritto, per capire se ci sono estremi di reato. Ricordandomi di Angelino Giovanni e di tutte le altre condanne, per motivi assolutamente risibili, sono preso dalla paura dei troppi anni che forse dovrò passare in questo lurido luogo. Non so poi come comunicare ai compagni del partito la mia situazione. Cerco di distrarmi pensando ad altro. Ma è molto difficile trascorrere in serenità una giornata, una notte insonne in una gabbia come questa, senza avere niente, proprio niente da fare.

Confrontando questa esperienza in cella con quella precedente, quando avevo materasso, libri e sigarette, comprendo sempre meglio la funzione del regolamento carcerario. La sua forza e pericolosità deriva proprio dalla impossibilità che sia applicato nella maggioranza dei casi e nel suo uso ricattatorio e punitivo. L'applicazione rigorosa e letterale del regolamento creerebbe infatti situazioni di agitazione e rivolta permanenti nel carcere e, in definitiva, metterebbe in crisi tutto l'ordinamento carcerario, creando i presupposti, almeno, per una sua revisione. L'istituzione, l'esercito, in caserma come in carcere, utilizzano in modo discrezionale queste norme borboniche, per ottenere l'obbedienza assoluta, come strumento di continua minaccia, per colpire i più "turbolenti", per punizioni esemplari, creando nel contempo l'immagine del buon superiore che amministra paternamente la legge e che solo in casi disperati è costretto, suo malgrado, ad applicare un regolamento di cui "naturalmente non condivide la durezza".

14 aprile - Ritornando dal cesso, il maresciallo Doni, che deve seguire ogni mio movimento, si ferma improvvisamente in cella, chiama il caporale di guardia e gli indica una scritta sul muro della cella, fatta probabilmente con la suola di scarponi militari: "Fascista". "Per questo ti becchi una bella denuncia!". Gli faccio presente che non ho scarponi ma solo un paio di pantofole e, quindi, non potrei scrivere sul muro. In ogni caso quella parola non insulta nessuno in particolare, ma solo chi ha la coda di paglia. Se ne va seccato. E' chiaro il tentativo di provocazione, di rendere sempre più difficoltosa la mia permanenza nella cella.

15 aprile - Chiedo disperatamente di parlare con il capitano, di sapere perché sono dentro. Mi risponde il tenente Zanzottera, nel pomeriggio sarò ricevuto. Aspetto con ansia, ma dopo la distribuzione dell'ultimo rancio capisco che non vedrò ancora il padrone. Vengo preso da una crisi di nervi. Mi metto a cantare, poi a gridare. Penso al suicidio. Ricordo quanto mi diceva Girolamo della ingestione di viti, chiodi o sul taglio delle vene per evitare ulteriori vessazioni. E' un'idea dura, ma passeggera. Mi rimane ancora un po' di forza per superarla.

16 aprile - Finalmente Nestorini mi riceve. Incomincia ad elencarmi le accuse. Non riesco a sentirlo. Sono distrutto e nello stesso momento mi sento liberato. Non riesco a reggermi in piedi. sento che sto per crollare a terra. Trattengo a stento il pianto. Mi faccio riportare in cella. Nestorini deve essere abbastanza spaventato dalle mie condizioni perché mi manda l'infermiere con alcuni sonniferi ed altre medicine. Sarebbe molto seccante per lui se mi dovesse succedere qualcosa. Finalmente dormo.

17 aprile - Il secondo colloquio è meno drammatico. Nestorini mi mostra la lettera che stavo scrivendo, il mio blocco con gli appunti, 5 fogli di testimonianze di carcerieri e di qualche detenuto. "Ho qui le prove testimoniali che tu stavi organizzando uno sciopero della fame nel carcere, che diffondevi notizie false su presunti maltrattamenti nelle celle d'isolamento, che parlavi di politica in camerata, che hai minacciato il tenente Zanzottera dicendogli "un giorno forse avrà modo di capire esattamente cosa intendo dire affermando che gli eserciti servono per la repressione, ed allora dovrà stare da una parte precisa", che hai organizzato l'interruzione collettiva della riunione con i preti missionari, che insomma tentavi di creare il malcontento in carcere per promuovere azioni di protesta".

Rispondo in modo pacato dichiarando di non aver mai affermato che in cella i detenuti vengono picchiati ma che ho saputo da altri e perfino dallo stesso interessato che in cella c'erano stati pestaggi; ed è una cosa diversa; che il malcontento esiste per cause oggettive e non per mio intervento; che è difficile non parlare di "politica" dal momento che tutte le nostre azioni presuppongono una scelta di principio, a meno che per politica si intenda solo esclusivamente quella di "sinistra", mentre le scelte conservatrici e reazionarie non sono "politiche"; che con il tenente Zanzoterra auspicavo solo un chiarimento che provenisse dai fatti e non dalle parole; che l'interruzione della riunione con i missionari è stata spontanea e non preordinata; che i detenuti non sono pecore e, quindi, sono in grado di decidere e di assumersi le responsabilità di ogni azione, anche di protesta, e che quindi non c'è bisogno nè di capi, nè di istigatori.

Nestorini cerca di giustificarsi sugli episodi delle celle, ormai divenuti oggetto di interesse anche all'esterno del carcere, ammettendo che De Simoni gli aveva comunicato che avrebbe denunciato al procuratore o nel corso del processo i maltrattamenti subiti. "Io sono inflessibile con i miei subalterni, come con i detenuti". Mi dice di aver allontanato due anni fa due sottufficiali perché troppo maneschi. In effetti il maresciallo Costa, di cui Pizzola ha fatto un'ampia descrizione nel diario, è stato allontanato da Peschiera... destinato al reclusorio militare di Gaeta. La discussione non ha chiaramente sbocco alcuno.

Nestorini deve evitare eccessiva pubblicità sul carcere ed è preoccupato delle prese di posizione del Partito e di giornali e deputati autorevoli come Nenni, Fortuna, Scalfari, Jannuzzi sul mio caso, che i compagni erano riusciti ad informare. Mi annuncia quindi solo una punizione di 30 giorni d'isolamento, di cui 10 di CPR e 20 di CPS: il massimo. "La procura dovrà decidere, poi, sulla possibilità di denunce".

21 aprile - Esco di cella. Ho un aspetto abbastanza terrorizzante. Sono pallido, faccio difficoltà ad aprire gli occhi alla luce solare, ho la barba lunghissima, il passo non è molto fermo, puzzo terribilmente. Mi rimetto presto. Ora entro in cella solo per 18 ore, mentre prendo l'aria con gli altri. Vengo a sapere che i compagni di camerata stavano per picchiare Veneziano che aveva "cantato" di fronte al capitano. Nestorini lo aveva spaventato dicendogli che avevo scritto che anche lui era d'accordo per lo sciopero della fame.

Anche Iodice è costretto ad accusarmi. E' sposato con prole. Suo figlio ha una grave forma d'ernia. "Tu sei sposato, vero? e hai un figlio. Ti piacerebbe rivederlo presto?". L'antifona è chiara; anche Iodice conferma che avevo cercato di organizzare uno sciopero della fame collettivo. Girolamo mi spiega che in un carcere ordinario Veneziano avrebbe pagato molto duramente quanto aveva fatto. In questi luoghi vige un "codice d'onore" rigorosissimo, che tutti i detenuti sono tenuti a rispettare. Gli dico che la cosa mi puzza di mafia e che non mi piacciono i regolamenti, da qualsiasi parte provengano. "Se dentro non ci difendessimo con nostre regole, saremmo completamente in balia dei carcerieri. I detenuti devono sapere che se fanno i figli di puttana non passeranno giorni molto felici".

Nel carcere c'è ora aria di rassegnazione, di sconfitta. Il capitano ha ripreso il controllo della situazione ed incomincia a muoversi con mano pesante. Molti compagni vengono trasferiti a Gaeta, i controlli sono diventati meticolosi.

Liliana mi comunica di aver ottenuto il permesso di colloquio dopo aver portato alla Procura una dichiarazione in cui mia madre conferma la nostra convivenza. Le maestranze di una fabbrica romana occupata, l'Aerostatica, ci inviano un telegramma in cui "auspicano pieno successo vostra lotta comune at nostra per società più giusta et libera". Ricevo la prima lettera dai miei genitori "... non condivido le tue idee ma apprezzo la sincerità. Un abbraccio affettuoso, tuo papà".

23 aprile - Arriva la comunicazione del mio trasferimento al carcere militare di Cagliari. Riesco ad avvertire i compagni. Non mi aspetto un simile provvedimento. Sono molto preoccupato perché a Cagliari sarà molto difficile comunicare con i compagni di Roma, ricevere visite. Mi ricordo del reggimento di punizione di Macomer, degli arresti e repressioni avvenuti in questa caserma, e temo che questo carcere sarà ancora più duro di Peschiera.

Alle 15,30 (è domenica) i carabinieri mi prelevano, ammanettato, con la tuta blu regolamentare, e mi portano con 7 ore di viaggio continuato con una macchina civile, nel carcere giudiziario di Civitavecchia, in attesa dell'imbarco per la Sardegna. Sono circa le 22,30 e la guardia carceraria di servizio fa qualche difficoltà per accettarmi. Anche i carabinieri della scorta sono stanchi e vogliono andare a mangiare.

La cella del carcere di Civitavecchia è molto piccola. C'è appena il posto per tre brande, un cesso ed un lavandino. I due detenuti sono sorpresi nel vedere un detenuto vestito in un modo così buffo, con una tuta da meccanico e una specie di divisa militare, legata con uno spago. Sono molto gentili e mi offrono dell'ottimo pane con formaggio. A causa delle sette ore di viaggio con le braccia conserte, i ferri ai polsi, stretto fra due enormi carabinieri, vomito immediatamente tutto. Il carcere "civile" mi appare molto diverso da quello militare ; per alcuni aspetti ancora più "incivile". L'autoritarismo è meno evidente ma le regole non scritte sono molto più dure.

Ho l'impressione che tutte le contraddizioni si risolvano con giustizia sommaria all'interno e i giustizieri siano di volta in volta i detenuti stessi o le guardie carcerarie. Diversamente dal carcere militare mi sembra che sia una generale rassegnazione alla condanna. Tuttalpiù si contesta l'entità della pena, non la pena. La "sbobba" è poi immangiabile, la carne praticamente non esiste, per cui tutti sono costretti a cucinare in cella o a comprare la bistecca cotta in cucina (L. 400) e ad escogitare, quindi, tutti i modi per trovare i soldi necessari per queste spese. I due compagni di cella mi offrono un'ottima pastasciutta, con sugo di pomodoro, patate (affettate con la lametta), formaggino e pane. I due sono dentro per furto di automobile. Vivono a Brescia ed hanno circa 20 anni. La loro storia è sempre quella: infanzia "difficile" per questioni familiari, entrambi i genitori operai, primo furto a sedici anni, riformatorio e, quindi, da sempre dentro e fuori dal carcere, senza alternativa e speranza. Resto in cella o nel corridoio, il cortile è opprimente: circa grande come una stanza con muri altissimi da cui a fatica si può vedere un fazzoletto di cielo. Tre detenuti in pigiama lo percorrono con il caratteristico "passo del carcerato": velocità sostenuta, continui dietrofront, per ore immersi nei propri pensieri chiacchierando con un compagno.

24 aprile - Mi portano assieme ad altri detenuti del carcere di Civitavecchia, nel traghetto per la Sardegna. Gli altri cinque sono incatenati insieme, io sono con i ferri, tenuto con una catena da un carabiniere. Provo una strana impressione quando, sceso dal camioncino, percorro la banchina del porto attrezzato in quella maniera ed osservato da tutti. Non mi vergogno affatto, ma vorrei spiegare alla gente che osserva il perché siamo trasportati come maiali nelle carceri. Un povero carabiniere è costretto a portare il mio zaino, con il corredo militare pesante un mezzo quintale. La cabina a noi riservata ha otto letti a castello ed è chiusa ermeticamente da una porta di ferro. Topi chiusi in gabbia. Preoccupato domando alla scorta se, in caso di naufragio, la nostra cabina verrà aperta. La risposta è sì, e respiriamo. Assieme a noi c'è un travestito, con vistosi indumenti femminili e trucco deteriorato, probabilmente per la lunga permanenza nella cella della questura. E' accompagnato in Sardegna per il soggiorno obbligatorio. Non viene messo in cella con noi, ma rimane nelle cabine dei carabinieri. I detenuti cominciano a fare manfrina, lo vogliono in cella. Alcuni sono da quattro anni in galera e fanno progetti sulla notte con il travestito. La protesta continua praticamente tutta la notte, ma senza successo. Il detenuto più vecchio, con grossi baffoni alla Stalin, di circa quarant'anni, condannato per sfruttamento, mi illustra la vita nelle colonie penali della Sardegna, Isile, Mamona, Asinara.

Lavorano all'aperto, hanno bestiame, producono latte, formaggio, prosciutto, salsicce e carne. Però i reclusi difficilmente riescono a mangiare questi prodotti. Servono per le guardie carcerarie, il direttore, il giudice di sorveglianza che passa ogni settimana: "solo per ritirare - dice - il prodotto del loro lavoro". La sbobba è immangiabile, cosi può andare ai maiali. Gli unici vantaggi sono l'aria aperta e la possibilità di avere rapporti sessuali con gli animali. Mi racconta anche della sua pecora, le cui prestazioni erano molto richieste e che concedeva per alcune sigarette.

Dopo dodici ore di viaggio arriviamo a Cagliari e, vengo condotto al carcere militare di S. Bartolomeo.

25 aprile - In tutto il carcere non ci sono che detenuti. Sono utilizzate solo due camerate abbastanza confortevoli, con annesso gabinetto molto attrezzato, con maioliche azzurre.

Un capitano, tre marescialli, due sergenti, dieci caporali. "E' una famiglia" mi dice il maresciallo maggiore Ligia con molta gentilezza, appena mi vede. E' un carcere eccezionalmente "umano". Per certi versi forse più assurdo del lager di Peschiera. Tutto e permesso, fuorché uscire: il rancio è ottimo, i rapporti con i "carcerieri" sono improntati alla massima gentilezza e confidenza, da anni sembra che non venga punito alcun detenuto, ognuno è libero di vestirsi come vuole, si fanno ottimi bagni di sole in un cortile molto ampio, si può scrivere un numero illimitato di lettere anche su argomenti "politici", leggere i giornali, quasi tutti. I sardi mi appaiono nelle loro virtù "tradizionali": le persone più simpatiche e gentili che abbia conosciuto.

26 aprile - Conosco il direttore, capitano Atzei: un giovane di 38 anni, non molto alto, senza divisa, con accento spiccatamente sardo. Penso che sia un civile che lavora nel carcere: parla infatti confidenzialmente, nel dialetto sardo, con un detenuto. Si presenta invece con molta gentilezza e incomincia a parlarmi. Mi chiede informazioni sul mio reato, parliamo delle motivazioni della obiezione. Mostra attenzione ai miei discorsi, anche se mi spiega perché non condivide la mia posizione. Mi dà del "tu", ma senza paternalismo come gli altri ufficiali.

Per circa 15 giorni rimango in isolamento. Devo finire di scontare la punizione di Nestorini. Non è la cella di Peschiera, ma una camera abbastanza grande, con branda e coperte. Devo però usare il bugliolo. Trascorro le ore di aria nel cortile, con gli altri. Non ci sono sentinelle ma il carcere è completamente circondato da una caserma dei carabinieri. Dalla finestra degli uffici si possono vedere i carri armati in dotazione. Ogni tanto si sentono scoppi e l'odore acre dei lacrimogeni: si esercitano. Gli altri detenuti giocano a pallone con i caporali, con l'ennesimo pallone comperato, spesso a propri spese, dal capitano.

Graziano Carboni, maglietta rossa e calzoncini corti, grida frasi in incomprensibile dialetto agli amici che sono sul monte Elia, proprio davanti al carcere. "Bona, bona!". E' il loro modo di chiamarsi. Graziano mi dice che un suo amico gli ha chiesto di me. Mi conosce ed ha letto sull'"Unione Sarda" del mio arrivo a Cagliari. Mi domanda con un po' di diffidenza se sono un testimone di Geova. Gli spiego perché sono qui dentro. Lui è praticamente in carcere dall'età di 16 anni. E' un ragazzo di una intelligenza e sensibilità straordinarie. Abita a S. Elia, uno dei più poveri quartieri periferici di Cagliari, proprio dietro il monte che noi vediamo. Mi racconta con un certo vanto dell'accoglienza fatta dai suoi amici al Papa. L'assoluta povertà della famiglia, l'impossibilità di trovare in Sardegna un lavoro appena soddisfacente, lo hanno costretto a vivere d'espedienti, e qualche furto.

Ma è cosciente di non reagire in modo adeguato e costruttivo - soprattutto per quanto riguarda la possibilità di essere più felice - alla società che lo ha emarginato, condannato ad essere sfruttato o ladro, che lo costringe in una condizione così difficile, dal riformatorio al "buon cammino", ed ora a S. Bartolomeo. A diciotto anni viene pagato dai fascisti per picchiare gli studenti. Una volta entrato nell'università si confida con un suo amico, denuncia pubblicamente in una assemblea di studenti i modi con cui fascisti approfittano dei sottoproletari, della loro condizione. Frequenta un gruppo che si occupa del problema degli emarginati e comincia a porsi seriamente il problema di costruirsi un tipo di vita diversa. Ma le denunce che ha già collezionato lo portano di nuovo in carcere.

Mentre è detenuto riceve la chiamata alle armi. Quando esce non si preoccupa di informarsi della propria situazione militare, vuole godere un poco di libertà. Dopo solo venti giorni viene arrestato e condotto in carcere militare. E' lui per primo che si rende conto che il carcere ha rappresentato una sorta di sicurezza, il modo per autoescludersi da una società che non intende accettarlo, la "soluzione dei problemi", enormi, che la vita gli ha posto.

Un carcere così non offre neanche lo stimolo per contestarne la funzione. E' un pericolo, ma anche un problema. Il capitano è un "buon padre", severo ma giusto, che vuole e soprattutto pensa di poter redimere senza mettere in crisi la società, le istituzioni che prima costringono al crimine e poi rinchiudono i "criminali" in luoghi così incivili, da cui può nascere solo odio o rassegnazione. In un certo senso, anche Atzei è un privilegiato. Se riverseranno in questo suo carcere decine di noi, decine di proletari e di sottoproletari; se il conflitto sociale e politico raggiungerà con maggiore consistenza questa sorta di oasi, anch'egli andrà in crisi, anche lui dovrà scegliere, se non ha già "scelto"...

7 maggio - In isolamento riesco a leggere e a scrivere molto. Rispondo alle sempre più numerose lettere che mi arrivano. Le conto: sono più di centocinquanta. La maggior parte sono di compagni del Partito. Sono molto belle e mi procurano gioia.

"... le distanze non contano, dice la gente, perché oggi si va sulla luna, ma sulla luna ci vanno quelli che hanno i mezzi. E poi le distanze contano quando sono fatte di pietra, come quelle quattro mura fra le quali ti trovi. Per passare al di là delle mura servono, ma non sempre, solo lettere. Perciò ti scrivo. Ti scrivo anzitutto, con la speranza che attraverso una nostra corrispondenza possa stabilirsi un filo, sia pure tenue, di solidarietà. E non ti nascondo che questa mia stessa speranza mi rende perplesso. Perplesso lo sono perché solidarietà significa darsi una mano, costituisce, secondo l'etimologia del termine, costituire qualcosa di solido, perciò, nella mia perplessità mi domando anzitutto che cosa io abbia di solido da porgere. Con l'aiuto della retorica indubbiamente si possono porgere tante cose e specialmente parole, parole di solidarietà. Poi si può dire anche che "le parole sono sassi". Mi pare che sia il titolo di un libro di Carlo Levi. Ma se ben ricordo egli si riferiva ai sassi che si tirano in testa alla gente, quando se ne trova l'occasione. Io penso che ci si possa riferire a quelle pietre che servono per costruire. E con le parole si possono costruire tante cose... se non si fa della retorica, come sto facendo!..." Gustavo Comba, da Torre Pelice, 4 maggio.

"Auspicando sollecito completo riconoscimento obiezione di coscienza et ammirati tuo coerente coraggio inviamo nostra piena solidarietà" Comunità cattolica S. Paolo, Roma.

"Caro Roberto, da giorni e giorni rimando di scriverti ed ieri qualcuno mi ha buttato via la lettera incominciata. Questa specie di rifiuto ha una ragione: il pensiero che un ignoto indifferente censore legga le mie parole mi ridà la nausea e l'angoscia che provavo da bambina quando mio padre, durante la guerra, mi proibiva di ripetere le cose dette in casa. E in tutti questi anni mi sono rifiutata continuamente di vedere che eravamo ancora in qualche modo prigionieri..." Lucia Severino, Roma.

"Students in Manchester informed of your imprisonment and express full support for you" University of Manchester Union.

"Ti invio una lettera arrivata dal partito, Peppino: "Ho letto sul vostro giornale, che è stato arrestato a Torino Roberto Cicciomessere. Molti anni fa è stato mio scolaro e lo ricordo con molto affetto e simpatia. Vi sarei grata se alle espressioni di solidarietà e incoraggiamento che certo in questi giorni gli arriveranno da molte parti, voleste unire anche le mie" Alessandra Serafini".

Ricevo anche contributi finanziari: Nicola Siano, Torino, "... ti siamo vicini più di quanto tu possa pensare. Da Peschiera ti hanno trasferito a Cagliari; da qui forse ti trasferiranno a Procida, ma sappiamo che nulla e nessuno potrà scalfire minimamente i tuoi e i nostri ideali di pacifisti non violenti che ripudiano la guerra come strumento di offesa alla dignità della persona..."; Bruno Recusani, Daniela Proietti, Mauro Mellini, i miei genitori, Giancarlo Calma, Gianfranco Spadaccia, un anonimo di Roma... Credo di aver ricevuto fino ad oggi circa 150 mila lire. Questi aiuti mi sono molto utili. Io spendo molto poco, praticamente solo per le sigarette, i francobolli, la carta per scrivere, qualche arancio. Ma molti detenuti non possono permettersi neanche le "Alfa". Da casa non ricevono niente e vanno avanti solo con le 68 lire giornaliere che ci vengono date. Cerco di aiutarli.

10 maggio - Sono ormai molte volte che parlo lungamente con il capitano Atzei. Resto anche mezze giornate nel suo ufficio a discutere. (Posso scriverlo, come devo, senza nuocerle capitano?) Anche io, come tutti i detenuti, nutro una forte simpatia per questo ufficiale, e non solo per il clima di relativa serenità che è riuscito a creare nel carcere. Ma non riesco a comprendere come possa, all'interno di un carcere dove sono più evidenti le contraddizioni della struttura militare, credere alla funzione "tradizionale" e "difensiva" dell'esercito. "I nemici della patria siamo noi detenuti? Graziano, Spadoni, io, i testimoni di Geova?". "Ogni struttura ha le sue leggi e non siamo noi a doverle discutere; ci sono altri organismi cui abbiamo delegato, con il voto, no?, questa funzione. Per quanto mi riguarda io sono qui a servire il paese, a prescindere dal suo colore. Se i comunisti andassero al potere e cambiassero le leggi io resterei al mio posto". "Ma lei è corresponsabile della struttura oppressiva di cui fa parte, alla quale collabora, non può delegare ad altri questa responsabilità, che è anzitutto individuale". "Se tutti gli uomini pensassero con la stessa testa forse non ci sarebbe bisogno delle strutture che tu chiami oppressive, dell'esercito. Ma non è così". Questo discorso della diversità delle "teste", della naturale inadeguatezza o incapacità degli uomini a prescindere dalla violenza, ritorna spesso.

E' sicuramente in buona fede. Quando parlo della struttura gerarchica ed autoritaria all'interno dell'esercito mi ribatte "La mia autorità non proviene dalle stellette, ma dalla giustezza delle mie opinioni e dalla mia maggiore esperienza". "Per questo sono in ogni momento disposto a ridiscutere ogni mio ordine". E' vero, nel suo caso. Non ha infatti nessun problema di rivalsa nei confronti degli inferiori di grado, con cui discute molto "democraticamente", amichevolmente, paternamente, forse, ma senza paternalismo. Gli pongo, attraverso il racconto dei problemi umani e sociali che ho conosciuto, il problema della funzione diseducativa delle carceri. "Io credo nel motto "vigilando redimere", e tu hai potuto rendertene conto, spero". Mi sono reso conto infatti del suo atteggiamento teso ad alleviare al massimo le sofferenze di tutti noi, nell'aiutare fino ai limiti del lecito i detenuti più "difficili", nella sua capacità di comprensione dei problemi "sociali", come lui li chiama per non dire politici, che sono alla base della condizione del detenuto.

Credo che si ponga anche seriamente il problema del ruolo che copre, come militare, nella società. E, sul piano della disponibilità personale, e della mia esperienza, un caso eccezionale, l'unico ufficiale che abbia mai conosciuto che creda in buona fede al suo lavoro. Ma non può che confermare la regola, offrire una valvola di scarico "umana" ad una situazione che delle norme repressive, violentatrici dei diritti e delle prerogative dell'uomo invece vive. Ed infatti lo trovo qui, in una situazione certamente "marginale", "lontana".

13 maggio - Ritorna dal processo Alfredo Spadoni, di Carbonia, il più vivace e casinista del carcere, anche lui pregiudicato, vittima di una situazione familiare disagiata, dai genitori che 13 maggio - Ritorna dal processo Alfredo Spadoni, di Carbonia, il più vivace e casinista del carcere, anche lui pregiudicato, vittima di una situazione familiare disagiata, dai genitori che non hanno il tempo di curarsi dei figli, di un ambiente dove ognuno vive ai margini della società e arrangiandosi, e dove le contraddizioni tra la povertà dell'isola e la ricchezza dei pochi privilegiati che hanno fatto i soldi con il turismo per i ricchi è più evidente. Durante una licenza si ubriaca e prende a male parole un carabiniere. Forse gli dà anche uno spintone. Viene condannato ad un anno. E' anche poco rispetto ad altri casi. Il suo avvocato d'ufficio non si presenta al processo ed un'ottima avvocatessa che passava per affari suoi al tribunale, scandalizzata per il comportamento del suo collega, accetta sul momento di difenderlo, e lo fa molto bene.

Il capitano è li che cerca di risollevare Alfredo portando il tutto sullo scherzo. "Ma capitano, perché devo fare dodici mesi, rinchiuso qui dentro, per una sciocchezza simile? Le sembra giusto?". "Ma dai, che ti è andata bene. Hai messo fuori uso due carabinieri, cosa ti aspettavi?". Probabilmente si aspettava di essere lasciato in pace ad ubriacarsi.

Siamo tutti nel cortile a prendere il sole. Ci annoiamo abbastanza e il pallone è caduto per l'ennesima volta fuori dal carcere. Il capitano dovrà comprarlo ancora una volta. Salvatore Ausiello, napoletano, con i baffi, uno dei dieci caporali che deve sorvegliarci, mi fa vedere un cartoncino "mondadori" inviatogli dalla ragazza. E' contento perché fra due giorni andrà in licenza: 5 giorni più 2 (di viaggio). Mi racconta che quando al CAR gli hanno comunicato che doveva andare a Gaeta si è spaventato molto. Durante il corso di due mesi nel reclusorio militare gli avevano spiegato che i detenuti militari sono pericolosi criminali, da cui bisogna guardarsi. Per molto tempo si chiude in sé, è distrutto. Non gli piace fare il carceriere, ma non può neanche rifiutarsi. Si rende conto che i detenuti sono soldati come lui, meno fortunati. Ora si è rassegnato, sogna ed aspetta il congedo, fa i calcoli dei giorni, delle ore che mancano, occupa il tempo fabbricando centrini con il telaio.

15 maggio - Fa caldo, e non sappiamo come passare il tempo. giochiamo a "pinella", organizziamo un "gavettone" per Ferrante. Penso a Peschiera. Qui, nel clima diverso, uno "scherzo", sorridere, provocare qualcuno senza aggressività, e possibile. Allora, raccogliamo queste parentesi.

Ma Ferrante rimane male. "Proprio ora che avevo indossato la divisa "buona" per uscire!". Se ne va in un angolo e non parla. Non ha nemmeno voglia di protestare. "Siamo stati stronzi a fare uno scherzo proprio a lui!".

E' un caporale, al limite della pazzia. "Perché devo stare in un posto così triste, a servire la patria girando chiavistelli, annoiandomi pazzamente, vigilando sui poveri diavoli come voi che non hanno fatto niente di male a nessuno?". E' comunista. Ripete sempre, con gli occhi spiritati, "qui s'impazzisce". Fra due mesi andrà in congedo. Si ripromette di farsi visitare da uno psicanalista. Da quando è entrato in carcere, da quando fa, come dice lui, il "carceriere-carcerato", non dorme, ha incubi, soffre di forti emicranie, è apatico. Anche il maresciallo Ligia dice che non è giusto che caporali di leva debbano fare un lavoro così ingrato. "Prima non era così. Anche nei carceri militari c'erano guardie pagate, che rischiavano la pelle per qualcosa di più delle 550 lire giornaliere. Evidentemente il ministero avrà dovuto risparmiare... ".

18 maggio - In macchina, scortato da una pantera della polizia, a Porto Torres dove mi imbarcano per Genova. Sono diretto a Torino, devo essere processato. Sono molto contento all'idea di rivedere i compagni di Peschiera che devono essere processati negli stessi giorni. La scorta è composta anche da un maresciallo. E' abbastanza insolito. In genere ci sono un brigadiere e due appuntati. Sono molto abbottonati, ma mi offrono un caffè. Solita cabina-cella. Dopo mezz'ora arrivano altri cinque detenuti, che provengono dal campo di lavoro dell'Asinara. Chiedono alla propria scorta di comprare vino e un pasto caldo. E' da molto che non mangiano qualcosa di decente. I loro carabinieri non hanno voglia di perdere tempo e portano solo due fiaschetti di vino e cibi freddi. Improvvisano una protesta bruciando giornali in cabina. L'aria diventa immediatamente irrespirabile. I carabinieri aprono la porta metallica e sequestrano tutte le sigarette e i cerini. La cosa finisce lì.

Uno dei detenuti molto giovane un po' effeminato è oggetto delle attenzioni sessuali degli altri. La notte resto sveglio. Sono preoccupato. Mi sono state raccontate spesso storie sulle violenze che avvengono nelle carceri penali. Parlo con uno dei detenuti che ha un comportamento più rassicurante. E' un operaio della FIAT, di Torino. Si chiama Nicola De Mare. Da sei mesi è in carcere per aver prestato la sua motoretta ad un ragazzo che se n'è poi servito per fottere i soldi ad un travestito. E' difeso dall'on. Ugo Spagnoli del PCI. Aspetta naturalmente il processo. Dopo la rivolta delle Nuove era stato trasferito in Sardegna. Da Genova a Torino si va in treno. Sempre la stessa scorta. Hanno capito che non ho intenzione di fuggire e, quindi, mi mettono i ferri ad un solo polso, incatenandolo al bracciolo del treno.

Mentre cammino per la stazione di Torino di nuovo ammanettato e incatenato , con i tre carabinieri di scorta, un bambino che passa con la madre si spaventa e si mette a piangere urlando e chiedendo alla madre perché ero in quello stato. " E' un delinquente, cattivo, non ti preoccupare, bello di mamma". Probabilmente sarò lo spauracchio, per il bambino, quando non vorrà andare a letto o farà difficoltà per mangiare.

19 maggio - Il carcere militare di Torino si trova all'interno della caserma Montegrappa degli alpini. E' composto in tutto da 4 celle singole e da una con sei brande. I carcerieri, brava gente, mi dicono che il comandante del carcere ha ricevuto un rapporto in cui sono descritto come persona molto pericolosa. Proprio il comandante mi fa chiamare, per conoscermi, rimane deluso. Doveva aspettarsi di vedere un colosso! Mi concede di portare la cintura di cuoio anche in cella.

22 maggio - Gianni Rosa, Domenico De Simone, Paderi ed altri arrivano. Non c'è Valerio e Alerino. Il loro processo è stato sposato ad altra data per non farlo coincidere con il mio, come inizialmente era stato stabilito. Mi raccontano gli sviluppi della situazione di Peschiera. Nestorini usa ora la maniera forte. Costringe gli obiettori a fare tutti i servizi del carcere sperando in un loro rifiuto. La posta arriva con ritardi pazzeschi e tutti i detenuti che parlano con loro vengono minacciati. De Simone mi conferma che racconterà ai giudici i maltrattamenti subiti in cella. Il sergente Maseracchia sarebbe stato sorpreso dalla polizia a sparare contro i lampioni di Peschiera. Dovrebbe esserci una richiesta di ricovero in clinica. Sembra che una denuncia sia stata archiviata. Paderi deve essere processato, accusato di aver mollato uno schiaffo al caporale Ghigioni, che lo aveva "spintonato" verso le celle.

23 maggio - Arrivo in aula alle ore 8. Intravedo dal furgoncino i compagni del MAI di Torino e del P.R. e la celere in tenuta da combattimento. Sono incatenato con un testimone di Geova e tre delle Nuove. In aula ci sono molti compagni, anche da Roma. Liliana non c'è. Sta a letto con la polmonite. Pina mi abbraccia e bacia piangendo. Sono molto contento di rivedere tutti i compagni. C'è anche Jean-Claude, di "Amnesty International". Sono abbastanza nervoso e teso. Verso le 9 entra la corte. Si apre il dibattimento, e subito gli avvocati Canestrini, Mauro Mellini, De Luca, Todesco protestano: carabinieri e polizia schedano i compagni che entrano in aula. La corte però si rifiuta di intervenire: "Non ci compete - ripetono - noi siamo ospiti di una caserma, il servizio d'ordine non spetta a noi". "E le garanzie di pubblicità al processo?". "Non spetta a noi, le ripeto, avvocato". Il capitano che cura l'"ordine ", lo stesso che due mesi prima, quando ci siamo consegnati, ci ha minacciati di portarci a chilometri da Torino e di lasciarci lì, si agita incazzato. Todesco comincia a presentare le eccezioni di nullità e di incostituzionalità. La corte concede solo cinque minuti per ciascuna eccezione. E' un fatto inaudito. Todesco riesce a malapena ad enunciare l'argomento delle eccezioni.

Nonostante le minacce e le schedature, l'aula è gremita, adesso. Ci sono anche giornalisti, fatto eccezionale perché i cronisti giudiziari, i giornalisti, non seguono mai i processi militari, spesso non sanno nemmeno dove si trovino i tribunali (infatti qui non c'è nemmeno un tavolino per la stampa, prendono appunti sulle ginocchia). Un vecchio avvocato che deve difendere i detenuti delle Nuove, ed è evidente che campa con qualche processo militare, di quelli che durano qualche minuto, incomincia visibilmente a spazientirsi. Borbotta che al tribunale di Torino non si era mai vista una cosa simile. Vedo che Mauro, che gli siede vicino, sta per esplodere, ed ha voglia di prenderlo a calci.

La corte insiste ad impedire agli avvocati di portare avanti la loro linea difensiva, di spiegare le eccezioni. I giudici sono disorientati, riescono a cavarsela a malapena perché ci sono il giudice a latere e l'accusa che maneggiano i codici in continuazione. Gli avvocati esigono che siano messe a verbale precise dichiarazioni e proteste. Ma debbono fare fatica e insistere quasi su ogni parola, perché i giudici cavillano e cercano di eludere richieste precise. Scendono dai loro uffici, ad osservare quello che sta avvenendo, scritturali e sottufficiali del tribunale. Gli avvocati hanno deciso di interrompere, per protesta, la difesa, di non pronunciare le arringhe. La corte mi chiede se sono d'accordo, la mia risposta è evidentemente affermativa. E' inutile dare avalli superflui ad un tribunale già di per sé anticostituzionale, e che non rispetta nemmeno la "sua" legalità.

Il mio interrogatorio è molto breve. Mi ero preparato un discorsetto della durata di un minuto, per poter riassumere le motivazioni più importanti del mio rifiuto e denunciare le contraddizioni carcerarie. Sono stato persino troppo ottimista, dopo appena la prima frase vengo interrotto dal presidente. E' un generale, anziano, con baffetti bianchi e monocolo. E' entrato appoggiandosi ad un bastone, molto formale nel camminare, anche se evidentemente claudicante. Ascolta sempre il giudice alla sua sinistra, che sfoglia svelto il codice, prima di parlare. Gli altri giudici stanno invece sempre zitti, con le loro sciarpe azzurre traverso il petto, il berretto poggiato sul nudo e lungo bancone.

Il presidente mi interrompe dicendo: "Sappiamo che lei è un uomo di cultura, ma qui non si fa politica, non è un comizio". Sceglie parole che evidentemente ha avuto raramente modo di pronunciare, nei soliti processi che si svolgono qui dentro, si rende conto che c'è la stampa, c'è un pubblico. Rispondono: "Non ho mai visto un oratore andare ad un comizio con i ferri ai polsi, e accompagnato dai carabinieri!". Riesco a pronunciare qualche altra frase, qualche battuta. La corte si riunisce. L'attesa sarà lunga, durerà un'ora. Ma dopo dieci minuti chiama gli avvocati, tranne Canestrini che si allontana, escono dalla porta che conduce alla sala di riunione. Hanno capito che sono stati troppo prevaricatori, anche sul piano procedurale? Che cerchino di rattoppare la cosa, certo senza successo? Solo parecchio tempo dopo saprò invece che si tratta di un'usanza abituale in questo tribunale, offrire un caffè agli avvocati...

Riesco finalmente, nella lunga attesa, a parlare con i compagni delle cose che mi interessano. Marco mi fa una relazione dettagliata, di quanto è accaduto al partito: aumentano gli iscritti ma non in misura sufficiente; Valpreda si è incazzato con i dirigenti del Manifesto per il mancato accordo elettorale e perché non erano stati messi in lista gli obiettori detenuti; "Notizie Radicali" esce ora finalmente, a stampa, regolarmente, ogni dieci giorni, grazie ad una sottoscrizione straordinaria che copre i debiti più gravi.

"Ti daranno quattro o cinque mesi" mi dice Marco. Anche io lo penso, anche per i casini di Peschiera. La sentenza è invece di tre mesi e tre giorni. Facciamo i conti uscirò il 14 giugno. "Giusto in tempo per organizzare la VI Marcia antimilitarista nel Friuli". Marco assente contento, non so se per la mite sentenza o perché così potrà liberarsi di un altro impegno di lavoro.

24 maggio - Vengo portato, in macchina, a Roma. I carabinieri mi tolgono per mezz'ora le manette. Li aiuto a trovare il carcere militare. Entriamo a Forte Boccea verso le 12, in tempo per il rancio. Vengo messo in una cella d'isolamento sotterranea. E' molto umida, fredda, sporca, con una patina di materiale bianco su ogni cosa, probabilmente è un disinfettante. Il "tavolaccio" è fatto di mattoni con lastre di marmo. La notte ho paura di visite di topi.

Il 25 mattina vengo portato in Pretura per un processo per "manifestazione sediziosa" e "manifestamente antimilitarista", del 2 giugno 1969. Nella cella dei sotterranei del Tribunale di piazzale Clodio ci sono molti detenuti in attesa di giudizio, che passeggiano nervosamente. Mario Vulcano è invece fuori che chiacchiera affabilmente con i carabinieri, con il pennacchio.

Al processo che mi riguarda siamo 24 imputati, la massima parte radicali. Non sono molto preoccupato, l'incriminazione è evidentemente assurda. E' invece un'occasione buona per rivedere, parlare con i compagni. Posso scambiare qualche parola con Liliana, sono quasi tre mesi che non la vedo. Ci sono tra il pubblico molti compagni del Partito. Anche Pizzola è tra gli imputati.

Franco De Cataldo è brevissimo, si muove nell'aula con tranquillità, quasi spavalda sicurezza, come un attore sul suo teatro. Dimostra al pretore che il processo non può continuare, per un errore di notifica; poi riesce ad ottenere l'autorizzazione per un mio colloquio con Liliana. I carabinieri controllano, aprendoli, i pacchetti di sigarette che Peppino mi regala, per vedere se vi sono nascosti bigliettini, o chissà che altro.

26 maggio - A Boccea mi ambiento subito. Ho ormai acquisito una certa esperienza sul modo di comportarsi in carcere. Nella decima camerata sono riuniti tutti i detenuti politici. Molti di lotta continua o anarchici. Del Sarto, di "Proletari in divisa", mi parla delle difficoltà di impostare un lavoro di massa nella caserma senza esporsi e, quindi, andare in galera con imputazioni pesantissime.

"Una volta che sono stato individuato, non c'è stato più scampo". "Non mi hanno fatto fare neanche il giuramento per paura di casini". "Anche nell'esercitazioni al campo non ho mai toccato un fucile, mi spedivano sul monte a segnalare con le bandierine se i bersagli erano stati colpiti". "La situazione è divenuta insostenibile, e, quindi, ho dovuto disertare per evitare reati più gravi". Ritrovo Maseracchia, che si mostra gentile. Ha perso tutta la sua tracotanza. Non gli chiedo della storia delle lampadine. Nella stessa camerata c'è Guido Garelli. E' una persona interessantissima.

Ha circa 28 anni. Viveva nel Gambia. Si arruola nell'esercito inglese e raggiunge il grado di capitano ed è impiegato in azioni contro il fronte di liberazione. Conosce molto bene la tecnica di guerriglia proprio perché ne ha fatta diretta esperienza.

Nel corso di una azione, lanciatosi con il paracadute in una zona impervia, a causa del carico eccessivo di nastri per mitragliatore che porta sul corpo, cade male e si rompe i tendini delle gambe. Ora cammina appoggiandosi agli oggetti sporgenti. Ritornato in Italia non lo riformano immediatamente, ma lo portano da un ospedale all'altro. E' colpito da enfisema polmonare. Lo spediscono in sanatorio. Lui non si fida e si fa ricoverare in un ospedale militare britannico, a Gibilterra. E' la denuncia per diserzione: 6 mesi di condanna.

Ha modo in questo tempo di meditare. Arriva da posizione di destra, imperialiste, a posizioni critiche singolari. Porta con sé un aggiornato e raro bagaglio di conoscenze militari. Studia i testi del moderno militarismo francese ed inglese. "All'attuale stadio delle conoscenze militari, delle tecniche e armamenti più evoluti, nè la guerriglia nè la controguerriglia possono risultare vittoriose sul piano puramente militare. La vittoria della "guerriglia" può essere solo della "politica". Altrimenti si crea una posizione di stallo, con un continuo ed enorme dispendio di mezzi e di uomini. "Il Vietnam e le stesse guerre di liberazione africane, lo dimostrano chiaramente". "La guerriglia non è solo una guerra di popolo fra il popolo con il popolo. E' necessario che ci sia una o più potenze esterne al conflitto che riforniscano i guerriglieri di armi e alimenti". Sono queste cambiali, che un giorno sarà necessario pagare! Gli ultimi qualche volta possono essere reperiti direttamente sul terreno di scontro, i primi no. Quando leggiamo che i viet-cong bombardano per giorni interi un aeroporto americano con i mortai dobbiamo pensare in termini di tonnellate di proiettili. Ed un battaglione di guerriglieri lontano dalla base spara in un giorno il quantitativo di bombe che in settimane di dure marce è riuscito a trasportare dal confine. Quanto è più lontano il confine, tanto è più difficile sostenere attacchi di lunga durata".

Sono i giorni dell'avanzata dei Giap. "E' chiaro che non può resistere a lungo". "Il senso dell'attacco è politico e non strategico". "Il problema dei rifornimenti è la chiave della moderna guerriglia. Anche Birindelli se n'è accorto. In Parlamento ha proposto la trasformazione della nostra marina. Niente più grossi incrociatori inutili, ma piccole navi costiere e mezzi da sbarco. Le prime per impedire il rifornimento di eventuali gruppi di guerriglieri italiani, i secondi per intervenire velocemente nei punti più caldi del territorio. E' chiaro che oramai la guerra convenzionale è solo guerriglia. La guerra atomica, anche dopo l'accordo russo-americano, è diventata una guerra di posizione, che si gioca come una partita a scacchi.

L'accordo prevede sostanzialmente di non sviluppare la difesa antimissile dei territori russo e americano. Solo le pochi basi missilistiche concentrate in piccoli territori saranno difese con queste armi. Può vincere solo chi farà scacco matto, chi in pratica conquisterà la cittadella fortificata.

"L'unico strumento non inquinato di azione popolare è quello non violento ". "Non sono necessarie costose, anche sul piano politico ed ideale, alleanze con altre potenze, ognuno può con un po' d'inventiva trovare le forme più opportune di resistenza e di attacco. Il potere è disarmato ed impreparato. Anche le molotov dimostrative dei cecoslovacchi sono strumenti non violenti, servono per ridicolizzare l'avversario.

Oggi non servirebbero più. Basta spruzzare con lo spray i cristalli ottici dei carri armati o rubare la calotta degli spinterogeni dei camion, per immobilizzare parte di un esercito d'invasione". Sono paradossi: lasciano intravedere le verità in cui crediamo. E' la prima volta, e qui in carcere, che ascolto una giustificazione "militare" della non violenza.

31 maggio - Ho un colloquio con Peppino Ramadori. Mi difende nel processo che dovrei avere il 12 giugno con Marco per "apologia di reato", per il manifesto "se la patria chiama rispondiamo NO". Il caporale non vuole uscire dalla saletta, come prevede il regolamento. Ci assicura che non ascolterà! Peppino ha fretta e, quindi, continuiamo il colloquio. Mi riprometto di protestare con il capitano nel colloquio che devo avere fra poco.

Mi sono messo a rapporto per sapere perché non è possibile comperare più un quotidiano al giorno, e perché mi è vietato l'acquisto di "Panorama". Il capitano Serra è molto comprensivo. E' anche lui sardo e conosce bene Atzei. Da poco ha ripreso il comando del carcere. Mi permette senza difficoltà di leggere i giornali e mi comunica che il comando centrale dei carceri militari ha disposto trasferimento a poche settimane dalla mia scarcerazione e in previsione di un processo davanti al tribunale di Roma, fra pochi giorni. Ma non può farci nulla. Alle 12 parto per Civitavecchia con un camioncino Wolksvagen. Ancora una volta devo aspettare per tre giorni, nel carcere giudiziario di Civitavecchia, l'imbarco per la Sardegna. Solito viaggio nella stiva della nave. Sono abbastanza stufo, mi dispiace lasciare i compagni di Boccea. Salta un'altra volta il colloquio con Liliana.

3 giugno - Il vecchio gruppo di compagni sardi è stato trasferito a Gaeta. E' rimasto solo Alfredo. Incominciano le chiamate del secondo contingente e, quindi, arrivano i testimoni di Geova. Per fortuna non sono nella nostra camerata. Ci sono anche le elezioni politiche e, quindi, alcuni emigrati che ritornano per votare vengono pizzicati nei loro paesi d'origine dai carabinieri e portati in carcere. Sono tutti da molti anni fuori d'Italia per lavoro ed entrano in patria con un foglio di color bianco, firmato dal console, con cui si concede la prosecuzione del rinvio del servizio militare. In Italia non la pensano così e, quindi, quando si presentano dai carabinieri per farsi timbrare il foglio del consolato, vengono arrestati e portati qui a S. Bartolomeo.

E' difficile esprimere i sentimenti di questi giovani, venuti in Sardegna per salutare i familiari, per mostrare i segni tangibili del loro lavoro all'estero, che improvvisamente si ritrovano in questo carcere. Sono stupiti, non capiscono, ci chiedono se la sera si può uscire o se possono telefonare a casa. Noi, forse un po' sadicamente, diciamo loro di chiedere al capitano il permesso per questa sera e di comprare i gettoni allo spaccio. Ritornano piangendo.

Uno è ancora con gli stivaloni e la tenuta da pastore: appena rientrato in patria non ha resistito alla voglia di andare a pascolare le pecore della famiglia. Le lascia sole per fare un salto dai carabinieri per il timbro. Si preoccupa per la sorte delle pecore non munte e fuori del recinto.

In genere a questi detenuti viene concessa la libertà provvisoria e sono, quindi, portati immediatamente al deposito misto di Calamosca, per essere avviati al corpo. Subiranno anche il processo nel quale saranno condannati con la sospensione condizionale della pena.

8 giugno - Questi ultimi giorni sono particolarmente duri. Conto le ore . Faccio progetti per il futuro. Cerco di immaginarmi il mondo di fuori, le mie prime reazioni. Non riesco più a dormire e sono molto nervoso. Le ultime sere riesco, con Alfredo e Piero, ad andare in infermeria con una scusa e a bere il cordiale militare. In questo modo dormo. Piero, ovvero Pierre, come lo chiamiamo in camerata, è ritornato da poco dalla Francia dove è vissuto per molti anni. Non poteva restare in quel Paese per le denunzie accumulate per favoreggiamento. Entra in carcere la prima volta per mancanza alla chiamata, ma viene posto subito in libertà provvisoria. A Calamosca si taglia le vene in seguito ad una lettera in cui la ragazza, che è accusato di aver avviato alla prostituzione, gli comunica di aver trovato un altro "amico". Aveva progetti per una sua utilizzazione anche in Italia. Viene denunciato ed arrestato per "procurata infermità". Si ostina in camerata ad accendere a tutto volume la radio, di notte, sintonizzata sulle stazioni francesi. Litighiamo spesso.

Non riesco ad essere più sereno. Aspetto con angoscia, più che ansia, di uscire. Non rispondo più alle lettere che mi arrivano. Spadoni è poi molto giù: l'avvocato gli comunica che la madre non vuole o non può pagarlo per la difesa, in un processo in cui è imputato di furto; e, quindi, deve arrangiarsi da solo.

10 giugno - Arriva Paolo Schirru, da Gaeta. E' sardo, dotato di una forza incredibile. E' stato condannato a 4 anni di carcere per aver picchiato due poliziotti che tentavano di arrestarlo perché disertore. Nel carcere di Gaeta era stato protagonista di una violenta lite con altri detenuti. Uno di questi era finito in ospedale con una coltellata nel petto. E' istintivamente un ribelle, si considera anarchico. Mi parla dei suoi progetti di fuga. Ma qui a Cagliari non se la sente: "Sarebbe una carognata troppo grossa per il capitano", "è stato troppo buono con me". Mi racconta di ciò che Atzei ha fatto per lui, prima di essere trasferito a Cagliari. Lo considera quasi un amico. Non mi sento di fare niente per fargli cambiare idea. Forse non lo voglio. Sarebbe comunque un discorso troppo lungo, troppo difficile da fare. Ho invece fretta di uscire, di raccontare quello che ho visto, di rifletterci sopra. Probabilmente mi illudo sull'importanza di questa esperienza.

14 giugno - Alle sei, sono fuori dal carcere; ritorno con Ugo Dessy a S. Bartolomeo per portare un pacco ai compagni. Renato Atzei mi viene incontro alla porta della caserma dei carabinieri. Parliamo ancora. Ma ormai, e per questa volta, ci siamo detti quasi tutto. Trova modo di ripetermi: "Se dovessi scoprire che l'esercito non serve per la difesa della patria, ma per ciò di cui tu mi parli, mi dimetterei subito". Tendo a crederlo, a credergli. Le sue contraddizioni possono costituire la forza di questo sistema o possono mutarsi in quella di chi lotta per una società più umana, nuova, diversa.

E' anche per questo che sono passato attraverso questi mesi, e che l'ho conosciuto. Penso che, comunque, e purtroppo, lo rivedrò: non al Partito, ma in carcere. Alla prossima obiezione.